mercoledì 30 settembre 2009
Violini
Quanto poco potere abbiamo sulle nostre emozioni, e sugli argini che cerchiamo di costruire attorno ai palpiti, spazzati via da onde più grandi dei nostri stessi slanci. Come le immagini che vengono a farmi visita la notte: io e te in un prato fiorito, a cogliere viole violini e violoncelli. Il vento che soffia ad archi e tu poi sdraiata con la testa appoggiata sulle mie gambe. Ti accarezzo, lasciando vibrare la musica che si svolge ad ogni nuovo tocco. Le lievi curve dei tuoi capelli a forma di chiave di violino. E i tuoi occhi che sorridono sotto le palpebre abbassate a festa.
martedì 29 settembre 2009
E venne il giorno
Novantuno minuti, dico novantuno, ovvero un'ora e mezza, solo per poter godere di due brevi intense inquadrature agli stupendi occhi di Zooey Deschanel, mi sembrano francamente totalmente sinceramente eccessivamente troppi, sul serio. Per cominciare a camminare all'indietro, in un parco e poi via via in aree sempre più disabitate e campestri, c'è sempre tempo. Il tutto inizia senza un ben preciso motivo, cresce con una tensione che a tratti costeggia lo zero, e si risolve così, di punto in bianco come in fondo aveva avuto inizio, senza che nessuno ne abbia dato una ben chiara ragione se si escludono quelli che sembrano i vaneggiamenti di un pazzo o di un fanatico. In questo contesto cominci a prendertela con qualsiasi cosa ti passi sotto le mani: le caratterizzazioni dei personaggi, con i due protagonisti che hanno litigato non si sa bene per quale motivo; Zooey Deschanel strana perché strana deve esserlo, punto e basta; l'amico, e un po' tutti gli altri personaggi di contorno, che vengono introdotti con un soffio, rimangono per qualche manciata di minuti a supporto vano della storia, per poi finire miseramente in un altro soffio. In questo contesto attacchi pure il doppiaggio di Mark Wahlberg, se proprio si vuole chiudere un occhio sull'interpretazione, con una voce odiosa e fuori luogo che stona su una faccia quadrata come quella dell'attore dell'ormai lontano Boogie Nights.
Shyamalan rimane un regista noioso, reso celebre solo per una trovata di sceneggiatura anche un pochino scontata e telefonata del suo esordio. Qui per farsi vedere, almeno questa è la trappola in cui sono caduto io, c'è la "già citata due volte" Zooey Deschanel (e con questa siamo a tre) che però non viene sfruttata né rende al meglio. Il resto è nulla, un po' come il nulla della campagna americana dove si perdono i protagonisti.
E le api?
The happening?
What's happen?
Giudizio: Passeggiata
- Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
- Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
- Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
- Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia
lunedì 28 settembre 2009
Lei, che nelle foto non sorrideva
Noi eravamo l'oggetto dei nostri stessi desideri. Incorniciati i nostri angoli adolescenti, ci aspettava quando saremmo tornati da lei, più grandi.
E gli anni volavano o scivolavano, non saprei.
Si cercava di fermarli nelle foto, impiccandoli a un sorriso.
vidi Ester tornare in camera nostra con lo sguardo strappato.
A lui avrei dato i baci più profondi dei miei quasi sedici anni.
Gli occhi increspati di celeste più del solito.
Inspirai forte l'aria. Aveva l'odore dei tigli di fine aprile.
Il mare era grigio. Il mare senza ancora l'estate.
Come in quei film che piacciono alla gente,
dovrei mettere margherite tra i capelli
La realtà è il rallenty effimero di un 16 mm sgranato.
Mi piace avere diciotto anni.
Anche se sono i diciotto di qualcun altro.
Questa è una caratteristica della provincia: tutti sanno tutto di tutti all'interno del tuo paese, ma il paese accanto è già un altro mondo.
"Ti ho portato questo."
Estrasse da uno zainetto una scatola incartata d'argento. Fisso quella carta bellissima, e lascio per un attimo trasparire un'espressione felice che può essere ricollegata alla vista del pacchetto. Quanto me ne frega poco di questo regalo. Come vorrei mi baciasse.
Al caldo, davanti a un tavolino con tigelle e vino, è straordinario come si possa trovare una via di scampo, e nella stessa via perdersi.
non importa dove poggiamo i piedi, ma a cosa pensiamo quando non li poggiamo da nessuna parte.
Disinnescati lentamente, che le pallottole fanno malde da morire, levate tutte in una volta, specie se stanno ancora in canna.
Non gli dirò che lui è stato il primo con cui ho fatto l'amore e mi sembrava perfetto, ma che quelli dopo di lui l'hanno fatto meglio, però me li sto già dimenticando.
Cinzia Bomoll
venerdì 25 settembre 2009
L'amore acquatico
Muovi le tue lunghe dita
che aprono fiumi di gelosie
E mi dai cascate ripide
che mi confondono come vertgine
Tu sei acqua che cade su di me
Muovi le tue lunghe ciglia
che aprono celesti fantasie
E mi dai perpetue armonie
che mi trascinano, poi mi comprendono
Tu sei acqua che cade su di me
Cade su di me
che aprono fiumi di gelosie
E mi dai cascate ripide
che mi confondono come vertgine
Tu sei acqua che cade su di me
Muovi le tue lunghe ciglia
che aprono celesti fantasie
E mi dai perpetue armonie
che mi trascinano, poi mi comprendono
Tu sei acqua che cade su di me
Cade su di me
Performed by Moltheni
giovedì 24 settembre 2009
Questa prima foto
E' bello avere queste foto, a volte, per poterle prendere in mano e rivedere, ricordarsi di te, di noi, di quello che abbiamo fatto e di quello che è successo, e ci è successo. Ti ricordi quando ti dissi che avrei voluto avere un album di polaroid con tutti scatti di persone sorridenti? Doveva essere quel giorno, con la luce che entrava tranquillamente dalla finestra della camera. Uno accanto all'altra, entrambi sdraiati sul letto, con la tua testa sul mio braccio steso aperto. Guardavamo il soffitto senza dire niente, come se su quel bianco intonacato dovesse passare da un momento all'altro un film stupendo. Tu eri nuda, completamente se non fosse stato per quel braccialetto fatto a mano di stoffa rossa. Era un regalo di una tua amica d'infanzia, quella che prima di diventare ragazza avevi scelto come migliore: sorella della vita, dicevi. Con le scuole, i primi amori, le università, i viaggi poi vi siete perse di vista e non vi rivedevate mai se non per strada di sfuggita, senza avere il tempo di fermarvi neppure due minuti a raccontarvi cosa vi fosse capitato; ma se porto questo braccialetto, dicevi, posso credere che in fondo amiche lo siamo ancora.
Eri nuda, si, quel giorno. Nuda ma spontanea come sempre, di quella nudità tutta tua che per molto tempo a me piacque guardare in silenzio senza avere il coraggio di toccare, quasi per paura di rovinarla. La notte che per la prima volta ci trovammo dentro un letto sfatto, sotto le lenzuola dopo un temporale che ci aveva bagnati anche le ossa rendendole come fette biscottate inzuppate nel latte, ti ricordi? La festa di compleanno di qualcuno che poi abbiamo perso per strada, in quella baita in montagna dove non c'erano abbastanza materassi per tutti noi sconosciuti. Formammo dei drappelli che ci divisero dal resto, e noi finimmo insieme, soli in quella camera minuscola. Dobbiamo spogliarci, dicesti te, altrimenti ci ammaleremo, diventeremo creature acquatiche e noi, come sai, non abbiamo le branchie per respirare sott'acqua. Ti togliesti il maglione rosso mentre parlavi, sfilandolo dalla testa come fosse pelle morta, rimanendo con una sottile canottiera bianca, tutta bagnata, appiccicata addosso quasi non ci fosse neppure. Ti prendesti un piede e sfilasti prima uno scarpone, poi l'altro. Via i bottoni che tenevano insieme i pantaloni, calandoli alle cavoglie e uscendone quasi con un passo di danza. Dai, sbrigati! dicesti a me ancora grondante nella maglia larga e nei jeans fradici. Cominciai a spogliarmi, come in una cascata al contrario dove vedevo passare la lana blu scura sopra gli occhi miei. Quando riemersi con una boccata d'ossigeno puro, nella stanza dove eravamo, tu a due passi da me con solo i calzini a righe gialle arancioni verdi e blu tirati fino sotto il ginocchio, le mutande bianche finite di sbieco nel toglierti i pantaloni, il reggiseno bianco, semplice e leggero. La canotta era finita in un angolo, appallottolata sopra il maglione e le altre cose. Le tue mani sparivano dietro la tua schiena, lavorando su un nodo meccanico che scogliesti facilmente senza guardare o sforzarti minimamente. Rimasi qualche attimo in pausa, io, bloccato nel normale scorrere del tempo, a guardarti in quella luce semibuia che la lampada sul comodino lanciava con timore; restai senza respiro per secondi e secondi che passarono su secondi e altri secondi, prima di vederti flettere il busto in avanti, ingobbirti leggermente per far scivolare le spalline del reggiseno dalle spelle sugli avambracci, poi sui polsi, stretti nelle mani e poi lanciati via insiema a tutto quello che di cucito c'era attorno.
Le nuvole non furono mai così bianche, soffici, voluttuosi; galleggiavano in un cielo terso e mite, di un celeste degli oceani più incontaminati e protetti da barriere coralline lunghe chilometri.
Persi gli attimi delle mutande, i gesti rapidi e le fruste dei calzini; ma ti vidi come un fantasma lasciare una scia di colore sfuso mentre andavi verso il letto, alzare le coperte e infilarti tremante sotto. Vieni, presto. Dicesti: dobbiamo riscaldarci.
Eri nuda come quella volta, così nuda che della tua nudità volevo rincalzarmi gli occhi e non averne mai abbastanza.
Vorrei avere un album pieno zeppo di fotografie di persone che sorridono.
Cosa?
Foto sorridenti, dissi sfilando il braccio da sotto la tua testa. Corsi verso la borsa e presi la macchina nascosta sotti i libri, i quaderni, le guide turistiche, i panini lasciati a metà, le pasticche per il mal d'auto, le pasticche per il mal di treno, le pasticche per il mal di testa, per il mal di stomaco, le pasticche per il buonumore e quelle per le giornate piovose. Tornai a letto e ci montai sopra, ritto in piedi sfiorando il soffitto. Ti sedesti rannicchiando le gambe sotto il culo, alzasti lo sguardo in alto verso l'obbiettivo e me.
Non si vedono i tuoi seni, se non leggermente uno nascondersi un poco sotto il braccio. Il braccialetto fuori fuoco in fondo si appoggia sopra ad un ginocchio chiuso. Si vede la tua coscia bianca andare via via curva verso la schiena; l'altra coscia con quella sua piega gentile chiusa sul polpaccio. Si vedono i capelli scuri nasconderti la fronte in frangia, appoggiarsi scompigliati sulle spalle magre; i tuoi occhi scuri con il riflesso della luce proveniente dalla finestra; le lentiggi che scivolano giù dal naso lungo le tue guance; e il tuo sorriso che si allarga sul mento e spinge lateralmente le labbra, lasciando lo spazio per i denti, formando quell'anatomica sacca piena che separa lo spazio degli occhi, lo spazio della bocca, e delimita lo spazio dove baciarsi per la buona notte.
Fu questa la prima foto che ti feci. La prima foto che misi dentro l'album. Ricordi?
Eri nuda, si, quel giorno. Nuda ma spontanea come sempre, di quella nudità tutta tua che per molto tempo a me piacque guardare in silenzio senza avere il coraggio di toccare, quasi per paura di rovinarla. La notte che per la prima volta ci trovammo dentro un letto sfatto, sotto le lenzuola dopo un temporale che ci aveva bagnati anche le ossa rendendole come fette biscottate inzuppate nel latte, ti ricordi? La festa di compleanno di qualcuno che poi abbiamo perso per strada, in quella baita in montagna dove non c'erano abbastanza materassi per tutti noi sconosciuti. Formammo dei drappelli che ci divisero dal resto, e noi finimmo insieme, soli in quella camera minuscola. Dobbiamo spogliarci, dicesti te, altrimenti ci ammaleremo, diventeremo creature acquatiche e noi, come sai, non abbiamo le branchie per respirare sott'acqua. Ti togliesti il maglione rosso mentre parlavi, sfilandolo dalla testa come fosse pelle morta, rimanendo con una sottile canottiera bianca, tutta bagnata, appiccicata addosso quasi non ci fosse neppure. Ti prendesti un piede e sfilasti prima uno scarpone, poi l'altro. Via i bottoni che tenevano insieme i pantaloni, calandoli alle cavoglie e uscendone quasi con un passo di danza. Dai, sbrigati! dicesti a me ancora grondante nella maglia larga e nei jeans fradici. Cominciai a spogliarmi, come in una cascata al contrario dove vedevo passare la lana blu scura sopra gli occhi miei. Quando riemersi con una boccata d'ossigeno puro, nella stanza dove eravamo, tu a due passi da me con solo i calzini a righe gialle arancioni verdi e blu tirati fino sotto il ginocchio, le mutande bianche finite di sbieco nel toglierti i pantaloni, il reggiseno bianco, semplice e leggero. La canotta era finita in un angolo, appallottolata sopra il maglione e le altre cose. Le tue mani sparivano dietro la tua schiena, lavorando su un nodo meccanico che scogliesti facilmente senza guardare o sforzarti minimamente. Rimasi qualche attimo in pausa, io, bloccato nel normale scorrere del tempo, a guardarti in quella luce semibuia che la lampada sul comodino lanciava con timore; restai senza respiro per secondi e secondi che passarono su secondi e altri secondi, prima di vederti flettere il busto in avanti, ingobbirti leggermente per far scivolare le spalline del reggiseno dalle spelle sugli avambracci, poi sui polsi, stretti nelle mani e poi lanciati via insiema a tutto quello che di cucito c'era attorno.
Le nuvole non furono mai così bianche, soffici, voluttuosi; galleggiavano in un cielo terso e mite, di un celeste degli oceani più incontaminati e protetti da barriere coralline lunghe chilometri.
Persi gli attimi delle mutande, i gesti rapidi e le fruste dei calzini; ma ti vidi come un fantasma lasciare una scia di colore sfuso mentre andavi verso il letto, alzare le coperte e infilarti tremante sotto. Vieni, presto. Dicesti: dobbiamo riscaldarci.
Eri nuda come quella volta, così nuda che della tua nudità volevo rincalzarmi gli occhi e non averne mai abbastanza.
Vorrei avere un album pieno zeppo di fotografie di persone che sorridono.
Cosa?
Foto sorridenti, dissi sfilando il braccio da sotto la tua testa. Corsi verso la borsa e presi la macchina nascosta sotti i libri, i quaderni, le guide turistiche, i panini lasciati a metà, le pasticche per il mal d'auto, le pasticche per il mal di treno, le pasticche per il mal di testa, per il mal di stomaco, le pasticche per il buonumore e quelle per le giornate piovose. Tornai a letto e ci montai sopra, ritto in piedi sfiorando il soffitto. Ti sedesti rannicchiando le gambe sotto il culo, alzasti lo sguardo in alto verso l'obbiettivo e me.
Non si vedono i tuoi seni, se non leggermente uno nascondersi un poco sotto il braccio. Il braccialetto fuori fuoco in fondo si appoggia sopra ad un ginocchio chiuso. Si vede la tua coscia bianca andare via via curva verso la schiena; l'altra coscia con quella sua piega gentile chiusa sul polpaccio. Si vedono i capelli scuri nasconderti la fronte in frangia, appoggiarsi scompigliati sulle spalle magre; i tuoi occhi scuri con il riflesso della luce proveniente dalla finestra; le lentiggi che scivolano giù dal naso lungo le tue guance; e il tuo sorriso che si allarga sul mento e spinge lateralmente le labbra, lasciando lo spazio per i denti, formando quell'anatomica sacca piena che separa lo spazio degli occhi, lo spazio della bocca, e delimita lo spazio dove baciarsi per la buona notte.
Fu questa la prima foto che ti feci. La prima foto che misi dentro l'album. Ricordi?
mercoledì 23 settembre 2009
[vampa #102]
[…] la frontiera esausta e dilatata, il luogo ove i giorni divorano se stessi replicandosi uno dopo l’altro, come le cicale stridenti consumano, tu maledici il giorno che cedesti alle lusinghe del mondo. Cumuli di alibi e orizzonti uccisi germinano ora annidati nello stomaco per svegliarsi ai piedi del letto e divorare. Partorirai con dolore. Per un attimo la vertigine è controllata, il pugno stretto attorno alla maniglia della porta spalancata, la chiave d’oro della libido conficcata nella toppa. Tutto acquisterà un senso in eccelsa sincronia con il transito satellitare. I tuoi vagiti prima e i tuoi pianti affannati poi sono stati accuratamente raccolti e decriptati affinché di ogni tua più intima fame ci fosse memoria e presagio. Là fuori c’è il mondo che finalmente sorride, la folla che apre il sacco degli elogi ed i cristalli di angoscia si sciolgono nel sangue per venire espulsi dagli intestini cromati della macchina. Folla, calore, affetto immediatamente assorbito fino a quel momento rigettato. Cosi calda la mano della folla, cosi tenero il suo consenso. Tutti perdona perché nessuno sa ciò che sta facendo, inondati della luce benevola della sua aureola dentata tutti righeranno dritti reclamando quotidiano pane serotoninico. Piovono gli elogi, piovono i sorrisi, le strette di mano, le pacche sulle spalle, le schiene si piegano in inchini e tu sei risucchiato dal crepitio di quegli occhi sbarrati e tutto finalmente sembra districarsi e illuminarsi e aprirsi come le acquee del Mar Rosso. La gioia calza come seta sulla pelle, la macchina è ai pieni regimi del suo cuore misericordioso e caritatevole, carne imbevuta di dopamina moltiplicherà i suoi e i tuoi bisogni e tu li soddisferai e ne mangerai, appendice protesa a immagine e somiglianza delle sue mille bocche. Strafogati di oblio, liberati, spaccati, dimentica: i centri del piacere torneranno a risplendere cantando cori di giubilo, ogni tua colpa verrà annullata. Finalmente vivo […]
In foto: ascéndere v. intr. [dal lat. ascendĕre, comp. di ad- e scandĕre «salire»] (coniug. come scendere; aus. essere). – 1. Salire, andare verso l’alto: Allor le donne ascesero per l’erta (Pascoli); fig.: a. ai più alti onori; a. al trono; a. nella via della perfezione. Nell’uso letter., e in particolari espressioni, anche trans.: a. l’altare; La macchina fatale il giogo ascese (Caro); gl’inarati colli Solo e muto ascendea l’aprico raggio Di Febo (Leopardi). 2. In musica, dirigersi, d’una voce, d’una melodia o d’un intervallo, da suoni più gravi a suoni più acuti: a. di una quarta; una frase che dal sol2 ascende al sol3. 3. Assommare, ammontare a una data cifra: la spesa totale ascende a circa mezzo milione. ◆ Part. pres. ascendènte, anche come agg. e s. m. (v. le due voci). (Home, 2009)
metro:vampe
martedì 22 settembre 2009
Segni
"So come sei fatto. Non cercare di trovarci dei significati."
"Non sto cercando dei significati."
"Non è colpa di nessuno."
"Non sto cercando di dare la colpa a nessuno."
"E allora cosa stai cercando? Con questo tuo atteggiamento fatto di silenzi e non voglio, non voglio."
"Sto solo pensando."
"Cosa?"
"Niente."
"Te lo ripeto: non significa niente."
"Lo so. In fondo ognuno fa le cose che fa. Il non avere una pistola puntata alla tempia ci rende liberi."
"Cosa vuoi dire?"
"Voglio dire che se ti fossi trovata con una pistola puntata alla testa, magari le cose sarebbero andate diversamente, ma non avrebbero avuto certo quel sapore genuino, spontaneo. Quindi è giusto così."
"Non mi è ben chiaro dove tu voglia arrivare."
"Non voglio arrivare da nessuna parte. Rilassati un po', mi sembri troppo sulla difensiva."
"Difensiva? Io? Sei te che stai montando tutta questa atmosfera da scoppio di una qualsiasi guerra mondiale. Si respira l'aria piena di foschia che c'è tra le trincee un attimo prima dell'inizio di una battaglia."
"Sarebbe pur sempre una guerra: ce la giocheremmo. Non è detto che saresti te quella a cadere. Invece ti comporti più come un prigioniero che ha una paura tremenda di essere interrogato."
"Ti sbagli."
"Mi sbaglierò; ma l'ultima volta non mi sono sbagliato."
"Eccola: è questa la tua prima mossa?"
"Pedone in E4."
"La siciliana."
"Non lo so. Mi sono sempre un po' perso tra le mosse."
"Cazzo! - Se ci fosse stato un vaso lo avrebbe scagliato contro il muro. - Vuoi farla finita? Vuoi iniziare ad incazzarti come una persona normale. Sono stufa di questo tuo atteggiamente passivo. Voglio che tu ti arrabbi, che ti incazzi, che tu faccia vedere a fiotti di vampe calde tutta la rabbia che hai dentro."
"Perché?"
"Perché è così che si fa. E' in questo modo che si..."
"Io ho un'altra ipotesi."
"E sarebbe?"
"Se mi arrabbiassi, con urla grida e tutto quanto, ti sentiresti in qualche modo punita, magari anche un po' vittima. Così facendo potresti passare oltre, superare questa faccenda, mettere una bella x su tutto questo e archiviarla come una cosa fatta: ho sbagliato e ho avuto la mia punizione. Ma sarebbe troppo semplice."
"Semplice?"
"Io non voglio punire nessuno, non... Preferisco che... Sta a te decidere come superare la cosa, come andare avanti, come smarcarla come fatta."
"Beh, in questo caso potrei benissimo fregarmene altamente e fare finta di niente, come se non fosse successo nulla. Come la prenderesti?"
"Sarebbe un tuo diritto. Ti ripeto: sta a te decidere. Ovviamente, in qualsiasi caso tutta questa faccenda ha fatto si che rivalutassi un po' di cose."
"Cosa?"
"La nostra disposizione."
"La nostra disposizione?"
"Si, la nostra disposizione nello spazio. Quello che è successo, secondo me, è indice delle nostre priorità, e le priorità seguono delle leggi assai complicate: si spostano di continuo in base a ciò che facciamo e ciò che non facciamo, e di conseguenza spostano noi, intesi come io e te."
"Io so bene le mie priorità..."
"Non sei te che definisci le tue priorità. Sono le tue priorità che vengono definite dalle tue azioni."
"Vedi, te lo dicevo: ci stai vedendo dei significati."
"Non sto cercando dei significati."
"Non è colpa di nessuno."
"Non sto cercando di dare la colpa a nessuno."
"E allora cosa stai cercando? Con questo tuo atteggiamento fatto di silenzi e non voglio, non voglio."
"Sto solo pensando."
"Cosa?"
"Niente."
"Te lo ripeto: non significa niente."
"Lo so. In fondo ognuno fa le cose che fa. Il non avere una pistola puntata alla tempia ci rende liberi."
"Cosa vuoi dire?"
"Voglio dire che se ti fossi trovata con una pistola puntata alla testa, magari le cose sarebbero andate diversamente, ma non avrebbero avuto certo quel sapore genuino, spontaneo. Quindi è giusto così."
"Non mi è ben chiaro dove tu voglia arrivare."
"Non voglio arrivare da nessuna parte. Rilassati un po', mi sembri troppo sulla difensiva."
"Difensiva? Io? Sei te che stai montando tutta questa atmosfera da scoppio di una qualsiasi guerra mondiale. Si respira l'aria piena di foschia che c'è tra le trincee un attimo prima dell'inizio di una battaglia."
"Sarebbe pur sempre una guerra: ce la giocheremmo. Non è detto che saresti te quella a cadere. Invece ti comporti più come un prigioniero che ha una paura tremenda di essere interrogato."
"Ti sbagli."
"Mi sbaglierò; ma l'ultima volta non mi sono sbagliato."
"Eccola: è questa la tua prima mossa?"
"Pedone in E4."
"La siciliana."
"Non lo so. Mi sono sempre un po' perso tra le mosse."
"Cazzo! - Se ci fosse stato un vaso lo avrebbe scagliato contro il muro. - Vuoi farla finita? Vuoi iniziare ad incazzarti come una persona normale. Sono stufa di questo tuo atteggiamente passivo. Voglio che tu ti arrabbi, che ti incazzi, che tu faccia vedere a fiotti di vampe calde tutta la rabbia che hai dentro."
"Perché?"
"Perché è così che si fa. E' in questo modo che si..."
"Io ho un'altra ipotesi."
"E sarebbe?"
"Se mi arrabbiassi, con urla grida e tutto quanto, ti sentiresti in qualche modo punita, magari anche un po' vittima. Così facendo potresti passare oltre, superare questa faccenda, mettere una bella x su tutto questo e archiviarla come una cosa fatta: ho sbagliato e ho avuto la mia punizione. Ma sarebbe troppo semplice."
"Semplice?"
"Io non voglio punire nessuno, non... Preferisco che... Sta a te decidere come superare la cosa, come andare avanti, come smarcarla come fatta."
"Beh, in questo caso potrei benissimo fregarmene altamente e fare finta di niente, come se non fosse successo nulla. Come la prenderesti?"
"Sarebbe un tuo diritto. Ti ripeto: sta a te decidere. Ovviamente, in qualsiasi caso tutta questa faccenda ha fatto si che rivalutassi un po' di cose."
"Cosa?"
"La nostra disposizione."
"La nostra disposizione?"
"Si, la nostra disposizione nello spazio. Quello che è successo, secondo me, è indice delle nostre priorità, e le priorità seguono delle leggi assai complicate: si spostano di continuo in base a ciò che facciamo e ciò che non facciamo, e di conseguenza spostano noi, intesi come io e te."
"Io so bene le mie priorità..."
"Non sei te che definisci le tue priorità. Sono le tue priorità che vengono definite dalle tue azioni."
"Vedi, te lo dicevo: ci stai vedendo dei significati."
lunedì 21 settembre 2009
L'altra faccia della medaglia
A nulla è servito: chiudersi nel silenzio, arrotolarcisi ben bene, confezionarsi con carte da regalo, infiocchettarsi con nastri colorati per apparire più eleganti; imparare dai gatti a far le fusa o dai cani a scodinzolare ai bordi delle strade, per poi usare le unghie e graffiare, o mordere a tradimento quando meno te lo aspetti, cercare di far male nascondendosi dietro la scusa di voler giocare. Siamo animali che portano i pantaloni - ci vergognamo a tal punto - e quando ci prendiamo per la collottola a vicenda ci portiamo sempre in posti nuovi che l'altro non conosce: apprezziamo questo modo di viaggiare perché nel lato bello pensiamo che sia pur sempre un bacio; ma è strano rendersi conto, tutto ad un tratto, quando siamo lontani e soli, distanti quel tanto da non annusare l'altro, o i suoi pensieri perché lui o lei non ci pensa quando non si vede, rendersi conto brutalmente, come al risveglio da un bel sogno, che per prendersi la collottola, vedila come ti pare, ci siamo pur sempre morsi. Per questo a nulla è servito leggere quel che si legge o vedere quello che si vuole vedere; perché una monetina lanciata in un pozzo senza fondo non suonerà mai, per quanto tu possa aspettare fino all'infinito e oltre un suo minimo tintinnio.
venerdì 18 settembre 2009
It's Backspacer time!
So già che non sarà come Vitalogy, quando lo trovai per la prima volta su radio, un po' stranito dalle prime note di Last Exit; non sarà come No Code, sempre in macchina, con mio fratello venuto a riprendermi dopo essere stato in centro a Firenze a comprarlo per me: rigirare tra le mani quel collage cartonato, scoprire le polaroid, o nel sottopasso della stazione abbordare due ragazzi che ne avevano comprato la copia in vinile, discutendo sui testi trovati all'interno delle varie copie; non sarà come Yield, con le traduzioni in italiano regalate al suo interno; non sarà come Binaural, in attesa del suo arrivo da Ginevra, con lo stiker di pubblicità del concerto svizzero; non sarà come Riot Act, con la corsa da una città all'altra per comprarlo il giorno stesso dell'uscita, e trovando di là dal mondo una persona impensabile, che anche se non per la stessa cosa aveva pur sempre attraversato il mondo proprio come me; non sarà come Pearl Jam, con il suo avocado a fare da antipasto per il concerto pistoiese. Ma oggi, dopo averlo scelto tra gli scaffali di un negozio, non più di musica sola, tornerò a casa, mi siederò sul divano e lo ascolterò: non più con le enormi cuffie delle stereo a coprirmi le orecchie e tenermi buoni i capelli; ma con il pc, e gli auricolari ben stretti con il volume alto, il libretto aperto, e gli occhi sulle parole scritte.
giovedì 17 settembre 2009
Aspettando il sole
Four Rooms all'italiana, con un cast di tutto rispetto dove Roul Bova si nasconde in una stanza, Vanessa Incontrada sotto una parrucca, Gabriel Garko gioca con la voce, Santamaria fa il Santamaria. Diverse storie tutte ambientate nello stesso albergo, con un campo di concentramento alla recaption su cui si basa tutto il film e pure l'albergo stesso. La storia procede a pezzi, dove in alcuni punti non si sfiorano neppure, e quando lo fanno vengono fuori manate sulle spalle, anzichè leggeri pressioni di sottointesi. Si chiude tutto negli anni '80, nelle reti locali e nelle televisioni piccole e quadrate. Alcune idee di montaggio vengono fuori, ma sono veloci e brevi, come l'elenco di ciò che non c'è in albergo.
Sono termiti, non formiche. C'è differenza.
Giudizio: Tv
- Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
- Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
- Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
- Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia
mercoledì 16 settembre 2009
Previsioni del futuro
"Da quando in qua ti sei messo a predire il futuro?"
"Predire il futuro? Cosa intendi?"
"Si, il futuro. Hai detto di sapere già come andrà a finire, di domani e tutto il resto."
"Ah, quello intendi. Beh, non ci vuole mica un mago per capire certe cose."
"Mi sembri un po' troppo sbruffone, se fai così."
"Non sono sbruffone, sto solo leggendo alcuni dettagli."
"Dettagli..."
"Si, dettagli: piccole cose che lasci qua e là come se niente fosse."
"Quali cose?"
"Non cose inteso come oggetti materiali. Cose come fatti, parole... sensazioni."
"Allora chiamale con il loro vero nome: sensazioni. Quello che tu hai la sbruffoneria di spacciare per certezze non sono altro che tue sensazioni. Pure e semplici supposizioni."
"Saranno anche semplici supposizioni, ma domani le chiamerai in modo diverso."
"Che stronzo che sei. Ti rendi conto che dicendo in questo modo non fai altro che sminuirmi? In pratica secondo te io non avrei neanche il potere di decidere quello che voglio o non voglio fare."
"Non sto dicendo affatto questo."
"E cosa stai dicendo allora?"
"Sto dicendo semplicemente che tu hai benissimo il potere di decidere cosa fare o cosa non fare, ed infatti hai deciso già cosa NON fare, solo che non hai il coraggio di ammetterlo. Non hai il coraggio..."
"Questa è proprio bella! Tu mi vieni a parlare di coraggio? Ma ti senti quando parli? Diavolo d'un santo, dovresti bruciare dalla vergogna anche solo a pensare di usare coraggio in una frase."
"Stai solo cercando di difenderti, forse perché in fondo ti fa male capire che lo stai facendo. Se odi tanto una cosa, non farla anche tu."
"Oh, smettila di citarmi canzoni."
"Fatto sta che domani mattina, appena svegliato, sanguinerò dal naso. Riempirò completamente il fazzoletto che avrò sul comodino e nel giro di qualche ora il sangue diventerà secco, raggrinzito sulla stoffa piegata in piccole colline non stirate; mentre tra le unghie, sulle dita, appiccicato sui baffi, il sangue rimarrà di un rosso quasi luccichente, vivo. E tu tutto questo non lo vedrai. Quello che mi fa più male è che lo sai già oggi, ma non me lo vuoi dire. Ecco forse il motivo per cui sanguinerò: un modo come un altro per esprimere fisicamente il dolore."
"Scusa..."
"Predire il futuro? Cosa intendi?"
"Si, il futuro. Hai detto di sapere già come andrà a finire, di domani e tutto il resto."
"Ah, quello intendi. Beh, non ci vuole mica un mago per capire certe cose."
"Mi sembri un po' troppo sbruffone, se fai così."
"Non sono sbruffone, sto solo leggendo alcuni dettagli."
"Dettagli..."
"Si, dettagli: piccole cose che lasci qua e là come se niente fosse."
"Quali cose?"
"Non cose inteso come oggetti materiali. Cose come fatti, parole... sensazioni."
"Allora chiamale con il loro vero nome: sensazioni. Quello che tu hai la sbruffoneria di spacciare per certezze non sono altro che tue sensazioni. Pure e semplici supposizioni."
"Saranno anche semplici supposizioni, ma domani le chiamerai in modo diverso."
"Che stronzo che sei. Ti rendi conto che dicendo in questo modo non fai altro che sminuirmi? In pratica secondo te io non avrei neanche il potere di decidere quello che voglio o non voglio fare."
"Non sto dicendo affatto questo."
"E cosa stai dicendo allora?"
"Sto dicendo semplicemente che tu hai benissimo il potere di decidere cosa fare o cosa non fare, ed infatti hai deciso già cosa NON fare, solo che non hai il coraggio di ammetterlo. Non hai il coraggio..."
"Questa è proprio bella! Tu mi vieni a parlare di coraggio? Ma ti senti quando parli? Diavolo d'un santo, dovresti bruciare dalla vergogna anche solo a pensare di usare coraggio in una frase."
"Stai solo cercando di difenderti, forse perché in fondo ti fa male capire che lo stai facendo. Se odi tanto una cosa, non farla anche tu."
"Oh, smettila di citarmi canzoni."
"Fatto sta che domani mattina, appena svegliato, sanguinerò dal naso. Riempirò completamente il fazzoletto che avrò sul comodino e nel giro di qualche ora il sangue diventerà secco, raggrinzito sulla stoffa piegata in piccole colline non stirate; mentre tra le unghie, sulle dita, appiccicato sui baffi, il sangue rimarrà di un rosso quasi luccichente, vivo. E tu tutto questo non lo vedrai. Quello che mi fa più male è che lo sai già oggi, ma non me lo vuoi dire. Ecco forse il motivo per cui sanguinerò: un modo come un altro per esprimere fisicamente il dolore."
"Scusa..."
martedì 15 settembre 2009
Disturbo della quiete pubblica
sembrava il posto migliore in cui stare: il posto in cui era più probabile che ci capitassero cose razionali.
"Strillavi e gridavi e parlavi a cento all'ora."
riconobbe in lei la ragazza che tanto tempo prima avevo reso superflue tutte le altre ragazze.
Indossava il bikini con un delicato misto di vergogna e orgoglio.
Oh, non si preoccupi, dottore, non sto dicendo che il matrimonio mi ha messo le pastoie; non mi beccherà a dare la colpa a mia moglie per tutto quello di cui non posso dare la colpa ai miei genitori, o altre stronzate da nevrotico. L'ambizione è sfumata, ecco tutto. A volte, in questi anni, mi è tornata l'idea - in genere dopo aver bevuto - ma ormai è andata. E' solo colpa mia.
L'ufficio era la parte peggiore - ogni volta che squillava il telefono lui pensava che poteva essere Pamela
"John, mi rifiuto di farti sprecare questa bellissima idea solo perché stasera ti senti stupido e borghese."
"Strillavi e gridavi e parlavi a cento all'ora."
riconobbe in lei la ragazza che tanto tempo prima avevo reso superflue tutte le altre ragazze.
Indossava il bikini con un delicato misto di vergogna e orgoglio.
Oh, non si preoccupi, dottore, non sto dicendo che il matrimonio mi ha messo le pastoie; non mi beccherà a dare la colpa a mia moglie per tutto quello di cui non posso dare la colpa ai miei genitori, o altre stronzate da nevrotico. L'ambizione è sfumata, ecco tutto. A volte, in questi anni, mi è tornata l'idea - in genere dopo aver bevuto - ma ormai è andata. E' solo colpa mia.
L'ufficio era la parte peggiore - ogni volta che squillava il telefono lui pensava che poteva essere Pamela
"John, mi rifiuto di farti sprecare questa bellissima idea solo perché stasera ti senti stupido e borghese."
Richard Yates
lunedì 14 settembre 2009
Gran Torino
E' così difficile essere padre quando padre si è per davvero, come guardarsi allo specchio e rendersi conto di essere l'unico che si augura buon compleanno. Ci immergiamo nel razzismo, quello verbale e di forza, quando le razze tutto intorno non ci circondano ma si amalgamano a pezzi, per le strade violente di un quartiere che un tempo era stato nostro. Cresciamo figli che non hanno il nostro stesso sangue, perché riconoscenti almeno loro, più di quelli che abbiamo fatto nascere: per loro sarà il regno dei cieli. Di peccati ne abbiamo commessi così tanti, in passato, alcuni confessati altri invece solo sfiorati con la memoria, e non è detto che i primi siano più profondi o viceversa. Gli errori si mescolano in testa come la tinta bianca che va a coprire le vecchie case, lavori manuali per un futuro a cui non avevammo mai pensato; un futuro marchiato da una sigaretta di chi come animali feroci poi avrebbe il coraggio di stuprare la propria stessa carne. La giustizia verrà con la vecchiaia, sputando sangue e tossendo mentre si taglia il prato, mentre si pulisce una macchina, mentre si mangia cibo straniero in una casa straniera; quando ci rendiamo conto che attorno il mondo è cambiato come una scenografia dipinta su un telo. La giustizia verrà e sarà la cosa più sicura possibile, per chi resta.
Giudizio: Dvd
- Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
- Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
- Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
- Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia
venerdì 11 settembre 2009
Mitt gullbergs kaj paradis
Möt mig där båtarna rullar ut
senare idag,
bland rostiga cyklar,
gummidäck och fabriksfasader,
krossat glas och avloppsrören
I hela mitt liv - hela mitt liv,
det känns som jag hör hemma i
gullbergs kaj paradis
och känn dig inte skyldig om du möter mig där
Vi kan le, men bara i sekunder
det är ett uttryck för känslor
och det är förbjudet
eller bli som gatorna, våren och vintern
- dom som går runt tills dom försvinner
I hela mitt liv - hela mitt liv,
men det känns som jag hör hemma i
gullbergs kaj paradis
och känn dig inte skyldig om du möter mig där
Bortsprunga katter ropar,
så bortsprungna katter ropar tillbaks
musiken rullar,
dom har glömt allt dom saknar på dan
och du, du är mitt UPPE i livet
men NERE på gatan.
senare idag,
bland rostiga cyklar,
gummidäck och fabriksfasader,
krossat glas och avloppsrören
I hela mitt liv - hela mitt liv,
det känns som jag hör hemma i
gullbergs kaj paradis
och känn dig inte skyldig om du möter mig där
Vi kan le, men bara i sekunder
det är ett uttryck för känslor
och det är förbjudet
eller bli som gatorna, våren och vintern
- dom som går runt tills dom försvinner
I hela mitt liv - hela mitt liv,
men det känns som jag hör hemma i
gullbergs kaj paradis
och känn dig inte skyldig om du möter mig där
Bortsprunga katter ropar,
så bortsprungna katter ropar tillbaks
musiken rullar,
dom har glömt allt dom saknar på dan
och du, du är mitt UPPE i livet
men NERE på gatan.
Performed by Hakan Hellstrom
giovedì 10 settembre 2009
This note for you
mi hai visto i calli delle nocche e non mi spaventa dovere bussare e bussare e bussare, tutto da perdere, da guadagnare ben poco ma è un poco che pesa, un poco che brilla, un poco che - che vuoi che ti dica? nemmeno mi ascolti, chiuso là dove dovremmo essere insieme, sai che troverei le parole e non solo quelle, sai che non per chiunque le cercherei sapendo dove guardare, qui in mezzo, eppure mi preferisci il silenzio.
Virginia Diazepam
Virginia Diazepam
mercoledì 9 settembre 2009
Quando
Sono sveglie che suonano a vuoto, quando chiami e non rispondi, quando cambi idea senza avvertire, per poi perderti nel vuoto, nelle mille diramazioni delle scelte che non vorrei. Appari e spari, compari e sparisci, con la stessa facilità di un cambiamento d'opinione. Quando respiri male con il naso, e l'aria si incastra nelle cavità senza poi riprendere il percorso; decidi quindi di respirare con la bocca, ingoiare l'ossigeno e spingerlo nei polmoni. Ma non siamo più bambini, nessuno ad insegnarci bene il modo giusto: inspirare, espirare; il sangue blu e quello rosso. Lanci un sasso nello stagno che si increspa come carta stagnola stretta in pugno, aspetti di vedere il risultato tornare come prima, con le piccole onde accucciate sulla superficie liscia dell'acqua. E mentre lo fai parli, quando siamo seduti a riva, uno accanto all'altra, su delle sedie leggermente reclinate di ferro verde. Dici quello che pensi, quello che ti passa per la testa: catturiamo gli aquiloni e costruiamo un aereo abbastanza grande solo per noi due; attraversiamo in volo l'oceano atlantico e perdiamoci in un'isola deserta, viviamo di bacche velenose fino a quando non diventeremo immuni, urliamo a pieni polmoni fino a riempire tutta questa stanza.
Così dici, fino a ieri. Poi ti volti, io ti chiamo, ma tu continui a camminare.
Così dici, fino a ieri. Poi ti volti, io ti chiamo, ma tu continui a camminare.
lunedì 7 settembre 2009
Come acqua sulla sabbia
Di tutte quelle strade con le macchine parcheggiate ai lati, sui passaggi pedeonali, lungo curve infinite dove camminare per farsi ammazzare, noi che zoppicavamo lentamente stonavamo così bene da farci sembrare veri. Mentre gli altri guidavano sui marciapiedi, sicuri e tranquilli come io non sarai potuto essere mai, noi ci siamo abbandonati al largo, senza vedere la spiaggia immacolata dalle nostre orme sulla sabbia, solo il riverbero del mare che veniva oltre i ristoranti, dalla destra, suggeriva una vicinanza che di acqua sapeva ben poco. Sono state le code, ai caselli autostradali, alle casse automatiche, alle persone che sbagliavano gli scontrini mentre mangiavano un cornetto, a farci arrivare tardi; non le docce o i nostri discorsi semiseri su chi avrebbe dovuto fissare l'ora, la partenza, le macchine superate in corsia, da contare come bambini che giocavano in fondo ai pulman delle gite scolastiche. Mentre ci parlavamo ci guardavamo ci annusavamo ci assaggiavamo ci palpavamo, sentivo i vestiti sulla pelle, sulle gambe, scivolare sulle mani mentre accarezzavo l'aria e la vicinanza. Tanti mille altri soggetti tutti affabili e allo stesso tempo affilati, quasi nel farci del male reciproco che ci scontravamo tra di noi, noi e loro, loro con ammaccature fatte di bottiglie rotte, il vetro dopo le dieci e la dislessia facciale di una simmetria ormai perduta. La riacquisteremo domani, dicevano mentre annaspavano verso un nuovo palco, seduti sui tavoli o in piedi su panche di legno duro, su chi come noi manteneva una spaziatura minima e distante, tra sicurezza e non curanza. Come ladri con le orecchie appoggiate alle cassaforti rubavamo i discorsi di gente che non aveva bisogno di atteggiarsi, perse in tempeste dove non vedevano la terra ferma, storti come lampioni e lampeggianti come semafori spenti: parole così stridule nella banalità da farle sembrare davvero sincere, senza alcun artificio od effetto speciale. Questo era incontrarsi e poi scontrarsi, lasciarsi e affondare con la testa in sabbie mobili dalle onde in spirale. Poi, dopo aver ucciso animali leggendari, con zampe forti e ali tese, abbiamo banchettato con mille commensali, distaccato la figura appiccicata addosso alle nostre ombre: per la prima volta ho fatto cose, visto luci, sentito odori. E mentre tornavamo indietro, sonno e stanchezza mischiate come colori ad olio, le tue palpebre si chiudevano su quella che poteva essere la fine di un'estate.
venerdì 4 settembre 2009
While My Mind Was Dry
Un tempo si sarebbe detto: appoggiate le testina sulla traccia sei, molto probabilmente la prima traccia del lato b, e ascoltate. Ascoltate con i fruscii che oggi non ci sono più, ma che negli anni novanta erano lo stesso un suono meraviglioso, come la delicatezza con la quale prendevate questo oggetto scuro, sfilandolo dal proprio letto; il cullarlo sul piatto e pulirlo bene bene, dove la polvere si accumulava sui solchi scuri e quelli più chiari.
La potenza ora dell'era digitale.
Me ne andrò in macchina con i finestrini abbassati, la canzone a volume alto.
E te. Te per strada che cammini con in mano tutt'altra musica.
La potenza ora dell'era digitale.
Me ne andrò in macchina con i finestrini abbassati, la canzone a volume alto.
E te. Te per strada che cammini con in mano tutt'altra musica.
Performed by Adam Kesher
giovedì 3 settembre 2009
mercoledì 2 settembre 2009
Forse un po' più piccolo e meno complicato
Un anno portò bene, se non ricordo male, anche se non c'era tutto questo freddo e il tempo era più sereno, con il sole ad illuminare, parcheggiammo un poco più vicino, camminando entrambi sicuramente meglio, senza stringere i denti o aggrottare gli occhi in smorfie per continuare. C'era una disposizione diversa, tipo scalare, da raccolti in montagna, su più livelli; mentre ora nel basso più profondo c'è solo un parcheggio ricoperto, un'edificio quasi prefabbricato che sembra tanto annusarci come una palestra, con il sudore grondante dalle pareti interne, ed ironia della sorte: proprio lì ci stanno macchine in miniatura che si divertono a scontrarsi, ammaccarsi la gomma di protezione posta alla base, e l'elettricità che passa attraverso le antenne messe al posto del bagagliaio. Quando ci fermiamo, seduti su una panchina incassata in un muro di pietra, da lontano si vede un campo verde dove piccoli omini grandi quanto biglie si divertono a correre alla rinfusa, sparsi nel naturale caos a cui, da dove siamo, non riusciamo a dare una regola. Oltre, il marrone scuro terriccio catramoso segnato da linee curve, un campo da basket vuoto, con gli anelli del ferro e le retine esposte al vento.
"Quale vento? - mi domandi tu. - Quale freddo? Qui non c'è posto per l'inverno."
Oh, si, risponderei io. C'è questo alitare di alta quota, le nuvole scure nell'orizzonte alto che cadono in pioggia sotto un grigio battente. E noi siamo vestiti fuori stagione, che tu ci creda o no, con i nostri pantaloni corti, le maniche delle maglie sui gomiti stretti, i vestiti con gonna al ginocchio, e la fortuna di un giacchetto di jeans chiuso in auto. Magari non qui, magari non ora, ma c'è freddo, credimi. Se accosti l'orecchio un poco all'aria lo sentirai filtrare tra molecola e molecola, sibilare nei gradi bassi che a valle sognamo di notte. E non c'è posto per abituarsi, stretti come siamo tra la folla che chiede da bere e passeggia tra le vie piccole del centro di questo mondo. Se solo avessimo del tempo per cambiare pelle, per dare alla temperatura una possibilità di ripresa, quella interna e non esterna, allora magari potremmo inseguire quella ragazza con i jeans corti appena sotto il culo, le gambe flosce di chi non scala neppure un gradino contro voglia, o chi non si diverte; quella ragazza con gli occhi truccati e pesi sotto gli anni che vorrebbe dimostrare e che invece non ha ancora, e la sua amica che la segue piano, dietro di due passi, con il telefono all'orecchio, nascosto dai capelli lisci e biondi, alta più di lei e che nella sua altezza nasconde le gambe e le cosce e le caviglie in pantaloni aderenti neri. Di questa ragazza noi non abbiamo l'odore, il sapore tra le labbra o sulla lingua; noi seguiamo la ragazza snella, più grande: quella con due canottiere di colore diverso, una sopra l'altra, con il seno minuscolo e i jeans sulle Converse nere. E' la più discreta, più matura; certo meno appariscente ma sicuramente più interessante. E'lei che seguiamo, in silenzio di nascosto, pedinando le sue orme e ricalcando i suoi passi sull'asfalto. Fino a quando non ci separiamo nella strada, come lingua di serpente, e noi zoppicando ritorniamo via.
"Quale vento? - mi domandi tu. - Quale freddo? Qui non c'è posto per l'inverno."
Oh, si, risponderei io. C'è questo alitare di alta quota, le nuvole scure nell'orizzonte alto che cadono in pioggia sotto un grigio battente. E noi siamo vestiti fuori stagione, che tu ci creda o no, con i nostri pantaloni corti, le maniche delle maglie sui gomiti stretti, i vestiti con gonna al ginocchio, e la fortuna di un giacchetto di jeans chiuso in auto. Magari non qui, magari non ora, ma c'è freddo, credimi. Se accosti l'orecchio un poco all'aria lo sentirai filtrare tra molecola e molecola, sibilare nei gradi bassi che a valle sognamo di notte. E non c'è posto per abituarsi, stretti come siamo tra la folla che chiede da bere e passeggia tra le vie piccole del centro di questo mondo. Se solo avessimo del tempo per cambiare pelle, per dare alla temperatura una possibilità di ripresa, quella interna e non esterna, allora magari potremmo inseguire quella ragazza con i jeans corti appena sotto il culo, le gambe flosce di chi non scala neppure un gradino contro voglia, o chi non si diverte; quella ragazza con gli occhi truccati e pesi sotto gli anni che vorrebbe dimostrare e che invece non ha ancora, e la sua amica che la segue piano, dietro di due passi, con il telefono all'orecchio, nascosto dai capelli lisci e biondi, alta più di lei e che nella sua altezza nasconde le gambe e le cosce e le caviglie in pantaloni aderenti neri. Di questa ragazza noi non abbiamo l'odore, il sapore tra le labbra o sulla lingua; noi seguiamo la ragazza snella, più grande: quella con due canottiere di colore diverso, una sopra l'altra, con il seno minuscolo e i jeans sulle Converse nere. E' la più discreta, più matura; certo meno appariscente ma sicuramente più interessante. E'lei che seguiamo, in silenzio di nascosto, pedinando le sue orme e ricalcando i suoi passi sull'asfalto. Fino a quando non ci separiamo nella strada, come lingua di serpente, e noi zoppicando ritorniamo via.
martedì 1 settembre 2009
Agosto 2009
"L’uomo va giudicato soprattutto dai suoi vizi; le virtù si possono fingere; i vizi invece sono sempre genuini."
Klaus Kinski
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