giovedì 3 febbraio 2011

IV

Pioveva spesso, fuori. Si sentiva l'acqua ticchettare a ritmo di orologio, metronomo convulso, sul vetro delle finestre alte, poste pochi palmi sotto il soffitto, a sorreggerlo e ad affacciarsi sul fuori, importando dentro luce fioca ma non aria. Era un rumore costante al quale prima o poi ti abituavi: ti cresceva un callo tra il timpano, incudine e martello, staffa, filtrava i suoni e i rumori, facendo passare come setaccio solo quelli più opportuni, quelli interessanti. Si sentiva provenire da fuori il fragore di un tuono o di un lampo occasionale, lo scoppio lontano, oltre le montagne, di una bomba lasciata cadere da un aereo partito poco prima, e di cui avevamo ascoltato la scia perdersi verso l'orizzonte in chiazze di nuvole tratteggiate. Non si sentiva il suono della pioggia che sbatteva contro le finestre, quello mai. Da dentro si aveva l'impressione che fuori fosse sempre un tempo meraviglioso: sole sulle valli, prati incontaminati di un verde accecante da quanto lucido, con erba alta, quando invece dentro, separati da un muro che ci dicevamo fosse solido isolante, era freddo così tanto da farci tremare le ossa, intrise di gelo fino a riempire tutti i pori del midollo. Per questo, mi dicevo all'inizio, ti vedevo in quel modo stretta attorcigliata su te stessa, per far sì che il tuo fiato riscaldasse la più grande quantità di pelle con un solo respiro. Avevi freddo, quello era vero. Sentivi quasi un nulla spingere fuori dall'interno, cercando in tutti i modi di espandersi ed evolversi, con il suo soffio ghiacciato in cristalli di paura che per combatterlo era naturale utilizzare il caldo, il fuoco o il calore del tuo corpo, per quanto esile ed in esaurimento fosse. Ma non era questo il motivo per cui ti respiravi addosso, alitandoti in continuazione prima sui polsi, poi sulle braccia, sulla pancia, sopra il ventre, rigirando il tuo sospiro tiepido tutto intorno al petto. Il motivo vero era un altro, lontano da quello che avevo pensato con incorreggibile presunzione.
Erano i giorni durante i quali era stato permesso alzarmi, muovermi dalle piaghe da decubito che mi sarebbero marcite addosso se fossi stato anche solo per altro poco tempo steso sulle lenzuola del mio letto. Il dottore mi aveva tranquillizzato, seduto dietro la sua perfetta scrivania ordinata davanti ai suoi diplomi, che niente e nulla c'era di malato in me nello ossa, o nei muscoli, i tendini, l'apparato locomotore tutto.
"Non c'è motivo per cui debba restarsene ogni giorno sdraiato a letto."
Le infermiere presero a darmi una flebo ogni pomeriggio, più o meno sempre alla stessa ora. Mi davano un bastone alto, con le ruote, non per appoggiarmi con il peso su di esso ma per trasportare sopra la mia testa la bottiglia spessa di colore trasparente che gocciolava capovolta all'ingiù fino in fondo alle mie vene. Con questo supporto molto artigianale, ma allo stesso ospedaliero, facevo lunghe maratone in lungo e in largo per i corridoi malati dei reparti. I letti con i pazienti agonizzanti sopra, avvolti e sconvolti nelle lenzuola sporche lise e lese, erano i marciapiedi della mia strada, uno a destro uno a sinistra, e mi accompagnavano dalla mia branda fino a quella che prima dell'avvento della guerra forse era considerata una sala relax, dove potere andare tranquilli a parlare, fumare o soltanto ascoltare l'aria farsi sempre più rarefatta.
Era una stanza quadrata, quasi del tutto spoglia, dove le poche sedie galleggiavano sul pavimento liberate qua e là sulle piastrelle chiare. C'erano ampie finestre che davano sull'esterno e si vedeva: prima il giardino dell'ospedale, lastricato di piccoli vialetti cementati, corrimano per aiutarsi, un sistema nervoso che univa tante rotondeggianti piazzole sparse un po' ovunque; oltre, a segnare il confine di quello spazio di riposo medico forzato, un fitto bosco con massici alberi dalla folta chioma, querce verdi o piante ancor più grandi, nel quale l'ombra penetrava e non lasciava uscire più la luce; il profilo alto, quanto più degli alberi, della città che avanzava verso l'orizzonte, palazzi, tetti, antenne televisive e radiofoniche, capelli grigi scuri di un paesaggio così silenzioso, da dove eravamo, da sembrare quasi un quadro, non reale.
Mi piaceva, in quei giorni, starmene in piedi di fronte a quel disegno fatto di colori sporchi, appoggiare la mano sul ferro freddo del mio sostegno, stando attento a non avvolgere troppo il braccio attorno al tubo che mi riforniva con la flebo, e guardare, solo guardare, stando zitto muto e fermo, per paura di rompere qualcosa, di sciupare quella perfetta armonia, di echi lontani e di silenzi vicini, che legava me alla metropoli poco industriale che non mi aveva visto crescere. Rimanevo lì fino a quando le ultime gocce scendevano con movimenti sempre più contati, ed immaginavo quello che veniva dopo, dopo la città, dopo le valli e le montagne. La guerra contro il tutto che ancora non avevo perso nella testa. Vedevo ancora, se chiudevo gli occhi, i fumi scuri alzarsi nella battaglia, la terra coperta dai nostri corpi, i proiettili caduti consumati negli spari.
In uno di quei giorni mi accorsi come non mai di quanto sarebbe stato difficile lasciarsi alle spalle tutto, allontanarsi da quel poco vissuto e molto morto che continuavamo a perpetrare.
"Non ci riuscirai mai." Mi leggesti nella mente tu.
Mi voltai di scatto, impaurito da quell'intrusione inaspettata. Eri seduta su una sedia a rotelle, come appoggiata in un angolo dove prima non ti avevo vista. Non saprei dire se eri lì già da quando ero entrato o se mi avessi seguito subito dopo essere sceso dal letto, magari chiamando un'infermiera e obbligandola a trovarti un mezzo, un modo per venire subito in scia con me.
"Te lo porterai sempre dentro, e ovunque andrai, per quanto proverai a scappare, sarà sempre un po' come tornarci."
"Lo so. - Dissi girandomi di nuovo verso le finestre e fuori e oltre. - La guerra ormai mi è entrata dentro, così tanto che penso quasi che tutti gli esami del sangue che mi fanno la mattina servano solo per capire quanti residui ancora ne ho in corpo."
"No. - Mi bloccasti allora tu, non lasciandomi il tempo di perdermi in discorsi per sfogarmi e liberarmi da quell'oppressione che mi aveva preso per l'impotenza della nullafacenza. Me lo impedisti con un voce ferma, perentoria e secca. - Non intendevo la guerra, quanto stupida inutile e volgare sia. Non è la guerra che non riuscirai più a scrollarti di dosso, quella è solo una polvere noiosa sulla tua pelle, non certo il vero sporco."
Non capivo dove volessi arrivare, negando in questo modo tutto quello che di più sicuro avevo a sorreggere le mie convinzioni.
Mi avvicinai piano, credendo forse che da più vicino avrei visto meglio, o di più, o per la prima volta, quello che volevi dire con le tue parole. Mi inginocchia di fronte a te, per essere faccia a faccio o giù di lì, esortandoti a continuare, di continuare a spiegare.
"La guerra non è un luogo, da cui scappare e poi purtroppo tornare di continuo, giorno dopo giorno. Caso mai è una distruzione di luoghi, quelli della propria infanzia, giovinezza, età acerba fino ad età matura. Vedrai che con il passare del tempo riuscirà a demolire anche il suo stesso ricordo, la guerra. - E ti sfuggì un sorriso di compassione per la mia stupidità. - Sarà da qui, dall'ospedale, da questo o altri, che non saprai più uscire. Non farai altro che tornarci, sotto varie forme o nature. Uscirai dalla porta di ingresso, magari fra due giorni, due tre settimane, ma non ne uscirai mai del tutto. D'ora in poi non avrai modo di tornare come prima: ogni volta che entrerai da qualche parte, in un luogo nuovo, un posto, una casa, un edificio in generale, sarà come se stessi firmando i fogli dell'accettazione del pronto soccorso, giusto in tempo per essere ricoverato di nuovo. Curato."
Cercai di guardarti negli occhi schivi che avevi, quando abbassavi la testa e le palpebre per non farli vedere agli altri, una breccia nel tuo io; ma lo sguardo mi scivolò prima sulle tue labbra, sul mento e poi giù fino alle mani che tenevi in grembo. La manica della vestaglia si era arricciata un po' verso il gomito, lasciando l'avambraccio nudo sperduto su tutto il resto del tuo corpo coperto, dal collo in giù. Fu allora che vidi come mai eri sempre tutta china su te stessa, rannicchiata dentro una scatola invisibile che ti spingeva le spalle verso le ginocchia, la testa fra le gambe. Non era il freddo il motivo per cui ti respiravi addosso alitandoti di continuo; ma per pulirti, per renderti più trasparente.
La tua pelle era così chiara che si vedeva quasi attraverso; e non dico solo le vene, quelle scure rosse e blu piene di sangue venoso arterioso da portare e riportare dal cuore e verso il cuore, ma anche i muscoli, ti si vedevano le fibre sottili appena sotto; le ossa, più delle loro estremità spigolose che cercavano di scappare dalla tua magra figura, le forme con cui si attorcigliavano su se stesse per formare l'ulna e il radio; e ancora, ancor di più, nuvole di pensieri vaporosi che vagavano in su e in giù, privi di resistenza o gravità. Si vedevano i tuoi dubbi, le tue sofferenze, le domande che ti ponevi o non ponevi ma che in qualsiasi caso non trovavano risposta; i tuoi umori, felici sorpresi spensierati ma anche cupi tristi e solitari; si vedevano i ricordi con i quali continuavi a giocare, le sensazioni provate e quelle che agognavi.
Ogni cosa si vedeva, ed era come se fosse una specie di fumo scuro o dai colori accesi, a seconda della natura, che cercava di riempirti tutta senza però mai riuscirci sul serio. C'erano sempre degli spazi vuoti, pieni di nulla, lì attorno al polso; e mi domandai quale fosse la densità di questo nulla, non lì dove contava poco, sulle braccia sulle dita o sul braccio, ma magari nell'interno, dove il peso specifico cambiava sensibilmente, magari dentro il petto e vicino al cuore.
"Una volta lì avevo un neo. - Dicesti più per distogliere via la mia attenzione, come feci ritornando a guardarti in faccia - ma mia madre diceva sempre che alitando sul vetro di una finestra si potevano creare magie con il semplice tocco della punta delle dita: così ho fatto, fino a quando quel neo non è sparito. Puoi provare anche tu. - dicesti facendo cenno alla finestra. - Basta alitare sul vetro e disegnare quel che vuoi con le dita. Vedrai che meraviglia."
Mi alzai scettico liberando le gambe dalla chiusura china su di te. Non credevo molto a ciò che mi avevi detto: la magia, il vetro e i disegni su di esso; ma credevo fino in fondo a quello che avevo visto dentro di te, quel breve pezzo trasparente del tuo braccio non poteva essere irreale, quasi quanto non poteva essere reale. Dissi a me stesso di dover credere prima di tutto in quel che vedevo, novello San Tommaso, dar fiducia ai miei occhi e non ai miei pregiudizi, mentre alitavo sulla finestra cercando di far evadere tutto il calore interno fuori dalla mia bocca. L'immagine del parco, del bosco e quel poco di città che prima si vedeva divenne a quel punto sfocata e indefinita: i singoli alberi, i vialetti, i palazzi, non avevano contorni netti ma si svuotavano un po' ovunque con colori più repressi, disordinati, senza regole. Quando tracciai una linea trasversale, dal basso verso l'alto, da sinistra verso destra, senza essere poi così sicuro di cosa volessi davvero disegnare, la punta dell'indice mi si bagnò un poco per la condensa, e fu in quel momento che capii cosa intendevi per magia, l'avere disegnato via quel tuo neo che non avevi più. Attraverso la linea che avevo tracciato vidi un luna park illuminato a festa durante la notte. Vidi la ruota panoramica girare con mille luci gialle rosse e fuoco, ma di un fuoco felice e spensierato. I bambini con lo zucchero filato che passeggiavano in un prato pieno di giostre e attrazioni, i sorrisi gioiosi straripanti in quei loro faccini in festa; e i loro genitori, persone adulte in un momento di tranquillità, tenerli per mano accompagnandoli tra una risata e l'altra. Famiglie su famiglie camminavano emanando quel senso di benessere, calma ritrovata dove prima non c'era che il silenzio assenso della città, dei boschi e dei giardini.
Quando ti cercai, dietro di me, al solito posto dove ti avevo lasciata e dove mi avevi colto di sorpresa la prima volta, avevo la bocca aperta spalancata, le immagini fantastiche che mi avevano reso disteso e sereno ancora grondanti dagli occhi giù per le guance, le labbra bagnate dalla mia stessa meraviglia; ma tu, quando avrei voluto dirti non so più cosa, solo lasciare andare le parole a ruota libera, e magari chiuderti in un abbraccio stretto di gratitudine, tu non c'eri più.

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