giovedì 21 luglio 2011

Godzilla in nomi

Godzilla esce dal mare con le zampe anteriori rattrappite sul proprio busto. Lancia uno squarcio di grido che taglia l'aria fredda del mattino. La testa reclinata all'indietro, verso il cielo, quasi volesse usare il mondo intero come cassa di risonanza. È rigido con il corpo, i passi sono segmenti immobili che dalla gamba a scaglie verde scuro, quasi nero, si appoggiano con violenza sul terreno senza la minima mobilità. Pezzi di legno, così come la coda: si muove mulinando nell'acqua, creando onde che andranno a distruggere paesi lontani, ma sembra ugualmente solo un semplice remo attaccato alla sua spina dorsale, nonostante su di essa sia stata disegnata una curva, trasformandola quasi in uno scivolo.
Godzilla è di plastica, dura, con gli arti semovibili, compresa la coda, ma quando la sua zampa maestosa si fa largo sulla terra, imprimendo sul suolo la una profonda e larga impronta, tutta la casa trema. Gianni continua imperterrito la sua disfatta, con la città invisibile stesa sul tappeto del soggiorno, costruita sopra gli intrecci di stoffa finta persiana, mentre il mare è di uno strano colore caldo, bruciato dalle mattonelle del pavimento. Un passo, due passi. Inclina il suo giocattolo a destra e a sinistra, facendolo muovere come un provetto Frankenstein, solo le mani sono più corte. A ogni passo corrisponde una scossa. La prima violenta, improvvisa. Le altre via via più soffocate, spinte giù in profondità, nascoste sotto.
Quando Gianni smette di giocare, e Godzilla si ammutolisce restando però a bocca aperta, da fuori si sentono arrivare i primi allarmi delle auto, le voci scese in strada che gridano preoccupate nomi propri di persona. Franco! Elena! Francesco! Non c'è un singolo filo di rumore in giro. Il traffico sembra sparito, spostato di qualche chilometro da altri suoni, e nonostante la confusione cacofonica che si sovrappone su se stessa, quasi fosse un lungo serpente annidato in uno spazio troppo stretto, quello che ne esce fuori, il risultato nuovo, finale, non è rumore: è un insieme assordante di suoni singoli e distinti, separati gli uni dagli altri da sottili spazi di silenzio. Nel dipanare questa intricata matassa di voci, sirene, echi lontani, Gianni riesce a percepire quanto di più strano possa attirare la sua attenzione di bambino: in tutto ciò che sente c'è una mancanza totale di frasi compiute. Ci sono un sacco di nomi, ma nessuna frase finita. Sono assenti qualsiasi tipo di verbo, avverbio, complemento oggetto. È rimasta solo la comunicazione ridotta all'osso, i segni di riconoscimento più basilari, semplici ed elementari. Anche Gianni, pur non ricordandosene, quando iniziò a parlare lo fece chiamando sua madre mama, suo padre 'abbo. Tutto il resto venne dopo. Formulare una frase non aveva senso in quel momento. L'importante, in quel primo periodo di zoppicante parlare, era attirare l'attenzione.
Fuori accade lo stesso. C'è aria di pericolo, nonostante Gianni dalla sua posizione, in ginocchio per terra, riesca a vedere uno spicchio di cielo attraverso la finestra. Sembra limpido, sereno. Neppure una nuvola, né grigia né bianca, solo un terso celeste candido e chiaro, composto. Non pare esserci niente di cui avere paura. Gianni deve ancora approfondire il suo concetto di paura ma istintivamente gli prende dal profondo quel senso di decisa sicurezza secondo cui se un pericolo può arrivare questo arriverà senz'altro dall'alto, piovendo letteralmente su di loro.
Il telefono inizia a squillare, una volta, due volte, tre volte. Gianni si alza per andare a rispondere, tranquillo. All'altro capo della linea c'è sua madre, la voce rotta dalla preoccupazione, singhiozzante nel non riuscire a rilassarsi, neppure una volta sentita la voce del figlio. Le parole le escono di bocca tagliate, oppure è la comunicazione a essere costantemente interrotta, con un certo senso di umido, lacrime e umori nasali. Gianni sente sua madre ridere sollevata, una risata quasi isterica. Poi, con la voce piccola tipica di chi è piccolo, domanda: come mai fuori ci sono solo nomi?

mercoledì 20 luglio 2011

Gli errori che sto aspettando di commettere

Tutti gli errori che sto aspettando di commettere si sono messi a battere in modo furioso alla mia porta. Vogliono entrare, prendermi per mano. Non sono affatto ordinati, non si sono messi in fila in modo da poterli accogliere uno alla volta, con tutte le reverenze del caso. Salve, come va? È stato un piacere averti conosciuto. Arrivederci, alla prossima. Avanti un altro.
No, si ammassano uno sopra l'altro, con confusione, violenza. Hanno fretta di entrare, vogliono essere il primo, abbracciarmi, allagarmi la casa con tutti i loro discorsi.
Sarebbe bello se potessi incontrare un mio futuro errore con più calma, avere la possibilità di conoscerlo meglio. Lo farei entrare in casa tranquillo, sereno. Accompagnandolo in soggiorno gli domanderei se volesse qualcosa da bere, una birra? Poi ci sederemmo sul divano, con la televisione spenta, solo un po' di musica bassa in sottofondo. Parlare per parlare. Alcune domande e molte risposte, almeno da parte sua. Una specie di colloquio. Mi potrebbe illustrare tutte le sue idee, le sue ipotesi, ciò che vorrebbe fare con il mio tempo e cosa mi vorrebbe far fare. In questo modo potrei valutare più obbiettivamente, senza fretta. Facendo delle scelte frettolose si rischia sempre di commettere degli errori, e forse pure questi si trovano ora accalcati davanti a casa mia. Magari sono proprio loro quelli che stanno battendo contro la porta in modo più insistente, deciso.
Gli errori che devo ancora commettere non sono educati, sono in qualche modo primitivi. Si pestano i piedi, montano uno sopra l'altro, si toccano, si scalano. Lascivi e nudi fanno quasi senso a vederli da dentro, quando mi affaccio dalla finestra di nascosto per non attirare la loro attenzione. Li sbircio per vedere un po' quali potrebbero essere i più sicuri, quelli di cui avere paura ma non troppa. Non c'è molta differenza, si somigliano bene o male tutti. Tutti quanti. All'inizio non sembrano pericolosi, fanno quasi pena. Li vedi sporchi, stanchi, affamati. Ti verrebbe voglia di fare il buon samaritano e farli entrare tutti quanti in casa, accoglierli per pulirgli pure le piaghe. È solo con il passare del tempo che mostrano tutto quello che all'inizio tengono nascosto. Spine sulle braccia, coltelli sfilati infilati nel culo sanguinante e infetto. Diventano progressivamente più cattivi, ignorando tutto quanto avete fatto insieme nei giorni precedenti. Dimenticano spesso il loro passato, gli errori. Non hanno memoria. Sono malati. Una settimana ti guardano con gli occhi dolci mentre la settimana dopo sono pronti ad azzannarti la spalla con denti affilati e sudici, come morti viventi. Farebbero di tutto pur di ammaliarti, all'inizio. La loro vera natura si svela solo quando iniziano a perdere i capelli, la pelle si macchia di vaste zone marce, gli occhi si rimpiccioliscono iniettandosi di sangue.
Quando sono cuccioli, in un certo senso, devi essere solo bravo a capire quale degli errori che ti sono venuti a trovare possa essere quello meno profondo. È un gioco a trovare nei loro tratti rosei la linea d'ombra che li farà cambiare. Percepire magari la loro evoluzione, chi muterà solo un poco e chi invece si ingobbirà sotto il peso della sua stessa violenza. Non è un azzardo, deve diventare un'abilità. Caso mai è solo un gioco nella scelta del male minore. Tutti sono errori. Tutti ti verranno a cercare.
Bussano alla porta.

martedì 19 luglio 2011

Diario di un fumatore

More about Diario di un fumatore

La donna aveva un paio di sandali, che sono sempre indizio sicuro di guai.

Personalmente non ho mai pensato che mia madre potesse smettere di fumare. Immaginarsela senza sigaretta era come cercare di visualizzarla su un paio di sci d’acqua. Ciascuno è libero di scegliere da sé la qualità della propria vita, e di procurarsi il piacere come meglio crede, ma sempre con la consapevolezza che, come diceva la mamma: “Prima o poi qualcosa ti frega”.

Se uno ha un minimo di perseveranza e qualcosa da dire, il modo per esprimere la sua opinione alla fine lo trova.

“Voi due siete in gamba” avrebbe forse detto il discografico, affettando una patata al forno ripiena. “Ma vostro padre, Cristo, che razza di…”
A quel punto io e Vicki ci saremmo sfiorati le mani sotto il tavolo, sperando che riuscisse a trovare la parola perfetta. Avevamo già in mente tutto.

Ero convinta che avesse i capelli argentati, ma da vicino ho visto che è piuttosto un grigio spento, un colore che mi piace molto di più.

Il destino, e forse il caso, aveva fatto lo sgambetto a quelle persone, mandandole in mille pezzi. Avevo la sensazione che una cosa simile potesse succedere a tutti, a prescindere dal fatto di avere una bella casa o aver ricevuto una buona istruzione. Uno scatto di troppo, troppo tempo passato a spazzolarsi i capelli: poteva già essere un primo segno. Nel cervello di chiunque poteva nascondersi qualcosa, annidato nell’ombra. In attesa.

Capisci di vivere in una città piccola quando riesci a finire le scuole medie senza aver mai visto un mimo in vita tua.

Le sue lettere facevano sembrare la mia vita irrimediabilmente opaca e prevedibile.

Nel tentativo incessante di essere tutto per tutti, Dupont ere riuscito a diventare una delle persone più misteriose che avessi mai incontrato. Conoscevo gente in coma che rivelava su di sé più cose di lui.

È sempre piacevole quando per puro caso puoi affidarti alla verità per cavarti da una situazione imbarazzante.

David Sedaris

lunedì 18 luglio 2011

Saltare

Quando salto mi do la spinta con un piede, facendo forza sulla pianta, alzandomi per un istante sulla punta per poi spiccare un breve basso volo. Ad attendermi c'è sempre il suolo. Saltare non significa iniziare a volare. Volare è un'altra cosa. Saltare significa abbandonare per qualche breve secondo la terra, ma poi, alla fine, rifinirci sempre sopra.
Sulla luna la gravità è assai più debole rispetto a quella della terra, il pianeta intendo. Sulla luna forse saltare potrebbe avvicinarsi al concetto di volare. Spicchi un balzo e ti ritrovi a galleggiare per aria. Ma forse anche questo non significa veramente volare. Volare mi dà la sensazione di avere un qualche potere, di essere un'azione attiva, mentre galleggiare è qualcosa che mi vedrebbe passivo, senza alcuna possibilità di governare il mio galleggiamento. Galleggiare in acqua non significa nuotare. Nuotare è più come volare trasportato nel mare. Galleggiare è sempre galleggiare.
Per volare bisognerebbe inventarsi un metodo capace di dare la possibilità di avere un qualche controllo, mentre si è per aria, tra le nuvole, per non perdersi. Decidere quando scendere o dove andare. Saltare non dà alternative: devi sempre ritornare a terra.
La sponda è molti metri più in là. Da dove sono io non saprei definirne la distanza. Oltre un determinato spazio per me la distanza si azzera, passa da essere due tre metri a diventare troppi, metri. Ciò che so è che tra la sponda dove sono io e la sponda dove vorrei arrivare con il salto, in mezzo scorre un fiume. Non un fiume tranquillo, placido nel suo andare dalla sorgente a valle, ma un fiume arrabbiato, impetuoso, con l'acqua che si divide a destra e a sinistra, sbattendo di continuo contro delle rocce sporgenti che da sotto squarciano la superficie deviandone per poco la corsa. La corrente incontra questi sassi rugosi, li aggira, viene tagliata da essi, e poi si ricongiunge dopo averli superati, si cicatrizza attorno a essi, e questi sassi mi sembrano formare una ferita dentro il fiume, delle schegge di vetro conficcate nella pelle dell'acqua.
All'inizio ho pensato di togliermi scarpe, calzini, pantaloni e maglia, restarmene in mutande e poi immergermi nell'acqua per guadare il fiume. Sarebbe la stata la scelta migliore, se avessi saputo nuotare abbastanza bene da riuscire ad oppormi alla corrente e non farmi trascinare via. No, sarebbe stato molto più saggio spostarsi a ovest, seguire il tragitto del fiume fino a trovare un ponte, o magari un passaggio stretto, un'insenatura dove il suo percorso prendesse la forma di un imbuto; ma ci avrei messo troppo tempo, senza neppure sapere se mai avrei trovato un ponte o un restringimento.
Ho guardato la sponda dall'altra parte. C'erano gli alberi, proprio come c'erano dietro di me. Tutto sembrava essere un'immagine speculare della sponda sulla quale mi trovavo. L’unica differenza ero io. Da una parte c'ero, dall'altra no. Se ne fossi stato capace avrei potuto piegare il paesaggio quel tanto da curvarlo su se stesso, facendo combaciare i contorni degli alberi, del fiume e di qualsiasi altra cosa con i contorni degli stessi oggetti dell'altra parte. In questo modo le due sponde si sarebbero trovate nello stesso punto, e io avrei potuto spostarmi dall’una all'altra semplicemente facendo ritornare il paesaggio speculare, non più curvato ma disteso. Sarei stato prima di qua e poi di là.
Fantascienza.
Ho provato a visualizzarmi dall'altra parte. Mi sono concentrato nel rappresentare il mio corpo in piedi sull'altra sponda. L'ho disegnato con la mente. Ho svuotato lo spazio necessario a contenermi, mettendo in equilibrio una bilancia immaginaria. Non ci sarebbe stata troppa materia su una sponda e poca materia sull'altra. Il vuoto che avrei colmato spostandomi su una sponda l'avrei utilizzato per riempire lo spazio che andavo a lasciare. Ce la potevo fare.
Ho preso la rincorsa. Il cuore mi batteva a mille ancora prima di iniziare a correre. Poi per un attimo mi sono tranquillizzato. Ho svuotato i polmoni, espirazione profonda. Il petto mi si è abbassato considerevolmente. Lo spazio tra pelle e ossa si è azzerato. Mi sono sentito pronto. Nell'istante in cui ho preso a correre il tempo si è fermato, tutto quanto si è bloccato. Nella mia testa non c'era più niente, era vuota, eppure non c'era lo spazio neppure per uno spillo.
Quando salto mi do la spinta con un piede, facendo forza sulla pianta, alzandomi per un istante sulla punta per poi spiccare un breve basso volo. Ad attendermi c'è sempre il suolo, o l'acqua.

venerdì 15 luglio 2011

Options

I could be the guy at the end of the street
high on caffeine
Ranting and raving, baby
And that’s OK
At least I've got options
Or I could be the one who gives it all up
and moves back to the parents’ house
Live in the basement baby
And that’s OK
At least I've got options


All the things you’ll see
And the place you’ll go
All the people you need
Everybody wants you
Wants to be you

I could settle down be responsible
Be a good man
And Learn how to fix things, baby
And that’s OK
At least I've got options
Or I could try and learn what I unlearned
Moving to business
And make loads of money for gullible people
That’s OK
At least I've got options


All the things you’ll see
And the place you’ll go
Find More lyrics at www.sweetslyrics.com
All the people you need
Everybody wants you
Wants to be you

I never wanted to change you
I only wanted to share
I don’t believe, I don’t believe
Starting over and over again,
Over and over again

Somebody who understands and loves me
Despite all my weakness' baby
And that’s OK
At least I've got options

All the things you’ll see
(All the things that you wanted see)
And the places you’ll go
(All the places that you wanted to go)
All the people you need
(All the people you wanted to need)
And the lovers you've known
All the lovers that you wanted to know

Everybody wants you
Wants to be you

Over and over again
Over and over again

Performed by Gomez

giovedì 14 luglio 2011

Prenditi i respiri

Non c'è molto da fare. Puoi ripeterti questo. Sfregati bene le nocche delle dita sulle tempie, in modo deciso, quasi a farti del male. Dovrebbe aiutare il concetto a entrarti in testa.
Il ticchettio delle lancette dell'orologio non perde un colpo, un metronomo preciso.
Un cecchino - una voce lontana, si perde nei canyon senza farsi vedere.
C’è troppa confusione. È la confusione a capovolgere le cose, farle precipitare. Un aereo con l'ala rotta, il motore in panne. Volare rimane comunque statisticamente il modo più sicuro di viaggiare. La situazione invece è un treno che deraglia. Lo vedi passare ad alta velocità, sfrecciare da destra a sinistra. Questo lo spettacolo di chi lo guarderebbe passare dalla strada, il passaggio a livello chiuso. Ma chi invece vi è dentro? Il panorama diventerebbe talmente confuso da rendersi indistinguibile. Alberi, foglie, rami, strade, città intere: tutto mischiato in un groviglio di colori inestricabile. Partire dal risultato e cercare di recuperare gli addendi. Non cambiano.
Il treno va sempre più veloce, macina chilometri a ritmo forsennato. Il muso si surriscalda così tanto al contatto con l'aria da diventare leggermente rossastra, incandescente. Sembra quasi si stia aprendo un varco temporale, uno strappo nello scorrere regolare del presente verso il futuro. Una volta squarciato si potrebbe entrare dentro questo tunnel e abbandonare l'oggi, lasciarsi alle spalle tutto quanto. Ma i viaggi nel tempo sono possibili solo verso il domani, non ancora nel passato. Arriveremo un giorno a scoprire anche come fare a modificare ciò che abbiamo già fatto, ma per il momento bisogno accontentarsi dei propri errori. Per quanto possa andare veloce il treno non riuscirà mai ad andare indietro, potrà solo procedere in avanti. Quanto più forsennata e decisa sarà questa corsa, tanti più saranno i morti, i feriti, i dispersi, che verranno prodotti.
Ecco cosa devi fare: prenderti i respiri invece di buttarli. La sera arriva sempre, qualsiasi cosa tu decida di fare o non fare, qualsiasi cosa tu riesca a fare o tu non riesca a fare. Un passo alla volta, costruisci il mosaico. Non c'è altro modo. Non è possibile partire da zero e raggiungere la velocità della luce. C'è sempre bisogno di passare attraverso le velocità intermedie. Anche il treno è partito da fermo.
In America ci sarebbe un vecchio uomo rugoso con un cappello di paglia, una salopette di jeans sopra una camicia a quadri rossi con le maniche arricciate. Una casa immersa nel vasto spazio incontaminato di una fattoria, i campi coltivati a grano. E un portico, sotto il quale il vecchio ogni sera si dondolerebbe su una sedia a dondolo, guardando di fronte a sé la strada sterrata che dalla statale asfaltata sembra portare direttamente a bussare alla porta di casa sua. Tutti i giorni a chiudere il giorno. Non farebbe differenza se durante la mattina, o il pomeriggio, fosse piovuto o ci fosse stato il sole; fosse grandinato, o ci fosse stato un nubifragio. Lui rimarrebbe seduto sotto il suo portico con qualsiasi condizione atmosferica, in tutte le stagioni, estate primavera autunno inverno.
Costruisciti la tranquillità, ogni sera, pezzo dopo pezzo. Solo dopo avere completato la tranquillità è possibile iniziare a lavorare sulla felicità.

mercoledì 13 luglio 2011

La donna al volante

Guidavano lo stesso modello di auto. Solo il colore cambiava: una era nera, l'altra era bianca. Lui l'aveva notato subito, sin da quando, in coda in autostrada, si erano trasformati da semplici sconosciuti a sconosciuti che si guardano. Già fantasticava, lui, di parlare con lei e ridere e scherzare proprio di questa futile casualità, magari seduti a un tavolino di un bar mentre sorseggiavano qualcosa per evitare l'imbarazzo iniziale, oppure in piedi, una di fronte all'altro, guardandosi non più con distacco ma con soffice curiosità: lo sguardo di lei che cercava di capire gli aspetti più nascosti e reconditi di lui; gli occhi di lui che andavano a scavare tra la pelle di lei per vedere quanto fosse sincera la sua felicità.
Aveva i capelli di un nero profondo, lunghi e lisci. In auto se li pettinava di continuo, passando le dita aperte dall'alto verso il basso, ridisegnandosi sempre la stessa divisa, rigida, piegata da una parte, da sinistra a destra. La pelle non proprio olivastra ma ben abbronzata, anche se non di un'abbronzatura naturale. Non sembrava averla presa sotto il sole, magari in spiaggia, spendendo lunghi pomeriggi afosi sdraiata su un telo da mare, ogni cinque minuti a bagnarsi le braccia, le gambe, la pancia che lui immaginava piatta per non stonare con il volto magro. Non la vedeva spalmarsi la crema sugli avambracci, partendo dalla spalla, e massaggiandosi il braccio fino ad assorbimento completato. Credeva fosse più tipo da salone di bellezza: una donna da appuntamento, prenotazione di un lettino solare. Nella sua testa la vedeva davanti a questa grande macchina ancora aperta, mezza bara e mezza fotocopiatrice, con le lampade lunghe tipo neon che riempivano la stanza nella quale si trovava da sola di una tenue luce azzurra. Si spogliava, prima dei pantaloni, poi della camicia, e infine anche del reggiseno, nero per intonarsi ai capelli, restando in questo modo solo con un tanga, il più piccolo e sottile e meno coprente che avesse in casa, per poi sdraiarsi a occhi chiusi, coperti da una buffa minuscola mascherina, dentro quella specie di sarcofago. Questa era la sua abbronzatura.
Aveva un naso regolare, dritto, sottile, che si apriva in fondo in due narici più grandi del setto, un poco sporgenti ai lati, per accumulare quanta più aria possibile da spingere poi nello stretto percorso sopra di esse. Mentre lo guardava lui non riusciva a non definirlo geometrico, rettangolare. Gli ricordava uno di quei dipinti di Picasso durante il suo periodo cubista: perfetto, regolare. Il resto dei lineamenti del volto però erano rotondeggianti, un po' in disaccordo tra di loro. Erano allungati verso il basso, come a proseguire la corsa del naso, ma avevano le curve di una lama di un coltello da cucina. Le guancie finivano in un mento leggermente a punta, non sporgente, per niente ingombrante.
Le labbra erano due linee socchiuse una sopra l'altra. Denti perfetti, dritti, bianchi. Un trucco non eccessivo, nascosto, che non si faceva notare ma andava solo ad aggiustare alcune imprecisioni qualsiasi, normali, laddove l'abbronzatura non poteva arrivare. Nessun tipo di abbronzatura. Giusto sulle palpebre, un velo scuro per marcare quanto più possibile la luce dello sguardo.
Quando la fila cominciò a sciogliersi, permettendo al traffico di riprendere il suo normale scorrere, lui non si accorse di essere ormai precipitato in un vortice di fantasie pressoché infinito, di essersi allontanato così tanto dalla realtà da non riuscire più a distinguere cosa fosse vero da cosa invece non lo fosse. La donna al volante del suo stesso modello d'auto, solo di colore opposto, era una persona diversa da quella che stava guardando delineando dentro la sua testa. I tratti somatici gli erano sfuggiti di mano e stavano con furia ridisegnando una figura solo simile a quella di partenza. Non poteva più dire con sicurezza se il naso costruito dalla sua fantasia corrispondesse al naso della donna che guidava a fianco a lui. O gli occhi, o il collo. Le labbra. La voce sarebbe stata certamente diversa, con un tono più reale e soprattutto più arbitrario. Lo schiudersi della bocca in lenti movimenti ingranditi davanti ai suoi occhi, l'immagine di solo le sue labbra giganti a comporre la visuale di ciò che lui vedeva, e il contorno di pelle ad allargarsi in un sorriso malizioso. Solo una di queste due donne distinte, staccate, si era sdraiata quasi del tutto nuda dentro un lettino abbronzante, più per fare godere a lui dell'immagine dei suoi seni e di quella parte di corpo che scivola giù dal petto fino ad arrivare al ventre che non per dorarsi di una pelle scura e abbronzata.
Non si era accorto, lui, di quanto lontano dalla realtà lo avesse portato la sua fantasia, di quanto fosse pericoloso, non solo per lui ma anche per gli altri, questo suo naufragare alla deriva. E lo sguardo di lei, la donna vera, che dopo averlo superato lo cercava nello specchietto retrovisore, non era intriso di sensuale interesse, quanto piuttosto di paura o timore.

martedì 12 luglio 2011

Stanchezza

A volte si sentiva talmente stanco da fare fatica pure a respirare. Si lasciava sfuggire un lungo lento sospiro e dentro di sé diceva: ecco, questo è l'ultimo, me lo sento. Invece i polmoni tornavano a riempirsi, per effetto meccanico: vuoto, pieno. Si ricordava di una specie di esperimento fatto a scuola per spiegare il funzionamento dell'apparato respiratorio. Non sapeva quanto questo ricordo fosse macchiato dal tempo, quanta parte di esso fosse reale e quanta al contrario fosse frutto della sua fantasia. C'era questo tubo di vetro trasparente, grande quanto una barra di uranio o un testimone che si usa nelle corse a staffetta, con dentro un palloncino. Un lato del tubo era aperto, rivestito con un altro palloncino in modo da creare un ambiente chiuso, dove l'aria non poteva né uscire né entrare. Se prendevi il palloncino all'estremità e lo allungavi, il palloncino all'interno si sgonfiava, quando lo rilasciavi, il palloncino all'interno tornava gonfio.
Con il tempo aveva perso per strada il senso di questo esperimento, non era più molto sicuro di cosa il maestro volesse dimostrare con tutto quello spettacolo, ma l'immagine gli era rimasta impressa, almeno quella che lui credeva di ricordare bene. Come spesso accade con le cose che si cercano di riafferrare dopo averle dimenticate, ci si costruisce una propria personale versione, non sempre aderente alle cose stesse che si cerca di ricordare; così lui con il tubo, il palloncino all'interno e il palloncino all'esterno, i suoi polmoni.
Il problema era che quando si sentiva così stanco da non riuscire quasi a respirare, la sua non era una stanchezza fisica, quanto piuttosto morale. Fosse stata fisica non avrebbe avuto di che lamentarsi: si sarebbe riposato, rimanendo una sera a casa sdraiato sul divano, oppure dormendo per un giorno intero. Ma la sua era una stanchezza che lo prendeva proprio dentro, sotto i muscoli, sotto gli stessi polmoni. Era un po' come se camminasse su una strada e sotto questa strada ci fosse tanta terra per circa dieci chilometri di profondità. Poi, a un tratto, la stanchezza lo prendeva e il terreno sotto la strada veniva polverizzato. Si ritrovava in questo modo a camminare su una strada che poggiava sul niente, spessa quanto un foglio di carta velina, sempre sul punto di rompersi sotto il suo peso.
In certe circostanze non riusciva a decidersi se essere la persona intenta a camminare sopra la strada oppure il terreno sotto la strada. Da una parte si sentiva proprio come chi si trova su una superficie precaria, mai sicura; da un'altra parte invece sentiva dentro proprio lo smussamento del terreno che scompare, di punto in bianco, lasciando il suo corpo senza più un sostegno interno. A volte si diceva di essere la persona sopra la strada, a volte si diceva di essere il terreno sotto la strada. In entrambe le situazioni si dimenticava sempre di porsi forse la domanda più importante: chi o cosa era la strada?

venerdì 8 luglio 2011

Butterfly Knife

You were the goth in high school
You cut and fucked your arms up
You always talked about it
They thought you'd never do it
You had two pet rabbits
Named Mickey and Mallory
I been inside your bedroom
I got the same scars you see
You were the goth in high school
You cut and fucked your arms up
You always talked about it

They thought you'd never do it
But I knew I knew I knew
I knew someday ...

Night
Colors red beneath moonlight

C'mon look me in the eye
20 kisses with a butterfly knife

Child
Take the hair and turn it white
Kids beget kids tonight
We'll never tell
We'll never fight

Shy
Only God can make it right
In the desert underneath
the light it's
20 kisses with a butterfly knife

Take the hair and turn it white
Take the hair and turn it white
In the desert underneath
the light
20 kisses with a butterfly knife

Performed by EMA

giovedì 7 luglio 2011

Cenere

Perdere, o il tempo a sciogliersi in bocca in granelli tenui di zucchero caramellato. Tra la sfiga e un treno ad alta velocità che corre troppo forte, i binari arrugginiti sui quali stendersi per dormire, il ferro come cuscino, il legno degli inframmezzi steso sotto la schiena per rilassare la colonna vertebrale. Moriremo tutti in schianti di ossa stropicciate da una presa acuminata, le falangi delle mani a penetrare la carne debole, la faccia in una sofferenza sopita appena sotto gli occhi si risveglierà nelle pupille in un palpito luminoso di speranza, l'ultima. Chissà quanto tempo dovremo aspettare prima di sbocciare di nuovo, di liquefarci in plastica di scarsa qualità.
Respiriamo ancora cenere, quella stessa cenere sottomessa ai nostri pensieri addormentati, sepolti sotto quintali di materia fatta di sogni speranze sollievi. La notte ci renderà magici quanto le stelle o la luna. Il pensare male o il fraintendere in soppresse volontà illecite non è la sola cosa che mi riesce meglio. I miei pochi pregi vengono spesso nascosti dai miei innumerevoli difetti, ma quando c'è da perdersi, non sai quanto mi piaccia ubriacarmi nel sangue versato troppo presto troppo in fretta troppo su troppo su liquidi macchiati di vernice rossa e poi di zampilli di rugiada fatta coscienza. Aspettavo sempre l'aurora del mattino prima di schiaffeggiarmi contro i muri, per punirmi di tutte le parole spese male; ma già alla sera speravo di nuovo in un contrario avvenire. Incrociavo le dita per far avverare tutto quanto non poteva avverarsi. I sogni sono fatti di mattoncini lego slegati gli uni dagli altri, persi.

mercoledì 6 luglio 2011

Giro di Vite

More about Giro di vite

Il racconto ci aveva tenuti attorno al focolare col fiato sospeso, ma a parte l'ovvia osservazioen ch'esso era raccapricciante, come doveva essere una strana storia narrata la vigilia di Natale in una vecchia casa, non ricordo che suscitasse alcun commento

Ciò che fin dal primo momento mi rapì il cuore fu qualcosa di celeste, qualcosa che non avevo mai trovato, allo stesso grado, in altri bambini: la sua tranquilla, indiscrivibile aria di non conoscere altro al mondo che l'amore.

il giorno indugiava

(una donna può sempre leggere in un'altra donna)

Lo chiamo sollievo, benché non fosse che un sollievo del genere di quello che un taglio può dare a una corda troppo tesa o lo scoppio d'un temporale ad una giornata afosa. Era un cambiamento, almeno, e venne all'improvviso.

Ebbene ti piace?
Sorrise; poi finalmente pose in tre parole: - E a voi? - tanta profondità quanta non avevo mai pensato che potessero contenere tre sole parole.

Henry James

martedì 5 luglio 2011

Giugno 2011


"Non è lecito dire, almeno dalla lettura di questo brano mai pubblicato, che John Barth abbia veramente preso in considerazione il suicidio, né che si sia attribuito pensieri che erano stati del suo protagonista Todd Andrews e una conclusione simile a quella, che cioè se non c'era nessuna ragione valida per continuare, non ne vedeva nemmeno una di abbastanza forte per finire."

Simone Barillari

venerdì 1 luglio 2011

Bruno mio dove sei?

Bruno mio dove sei?
Scusami se ti chiamo sempre
che senza di te non riesco a combinare niente
i figli sono peggio di te
sempre fuori, sempre in movimento
fanno sogni più grandi di me
che lo ammetto a volte mi lamento

il punto è che mi manca trovarti addormentato alla TV
cercarti fuori dalla chiesa
andare insieme a fare la spesa
le sigarette sul comodino, il cruciverba poco più in là
mica l'avevo capito che era quella la felicità

Eh, ma come è ingiusto il buon Dio
dovevo esserci io al posto tuo
te la saresti cavata certo meglio di me
che non so neanche ridere senza di te

Bruno mio ma lo sai
che i nipoti stanno crescendo=
ogni tanto mi chiedon di te
se dal cielo tu li stai guardando
e ogni sera cento "ave marie"
quel rosario lo sto consumando
e mi sento una bambina anche io
quando sogno che mi dormi accanto

perché non è facile
sapere che non tornerai mai più
che questa casa enorme ha poco senso se non ci sei tu

su questo vecchio divano
guardo una foto e non lo ammetterai
mi hai amato da sempre, anche se non me l'hai detto mai

Eh, proprio assurdo il buon Dio
dovevo esserci io al posto tuo
te la saresti cavata molto meglio di me
che non so neanche vivere senza di te

Bruno mio dove sei?
scusami se ti chiamo sempre...

Performed by Brunori Sas