lunedì 18 luglio 2011

Saltare

Quando salto mi do la spinta con un piede, facendo forza sulla pianta, alzandomi per un istante sulla punta per poi spiccare un breve basso volo. Ad attendermi c'è sempre il suolo. Saltare non significa iniziare a volare. Volare è un'altra cosa. Saltare significa abbandonare per qualche breve secondo la terra, ma poi, alla fine, rifinirci sempre sopra.
Sulla luna la gravità è assai più debole rispetto a quella della terra, il pianeta intendo. Sulla luna forse saltare potrebbe avvicinarsi al concetto di volare. Spicchi un balzo e ti ritrovi a galleggiare per aria. Ma forse anche questo non significa veramente volare. Volare mi dà la sensazione di avere un qualche potere, di essere un'azione attiva, mentre galleggiare è qualcosa che mi vedrebbe passivo, senza alcuna possibilità di governare il mio galleggiamento. Galleggiare in acqua non significa nuotare. Nuotare è più come volare trasportato nel mare. Galleggiare è sempre galleggiare.
Per volare bisognerebbe inventarsi un metodo capace di dare la possibilità di avere un qualche controllo, mentre si è per aria, tra le nuvole, per non perdersi. Decidere quando scendere o dove andare. Saltare non dà alternative: devi sempre ritornare a terra.
La sponda è molti metri più in là. Da dove sono io non saprei definirne la distanza. Oltre un determinato spazio per me la distanza si azzera, passa da essere due tre metri a diventare troppi, metri. Ciò che so è che tra la sponda dove sono io e la sponda dove vorrei arrivare con il salto, in mezzo scorre un fiume. Non un fiume tranquillo, placido nel suo andare dalla sorgente a valle, ma un fiume arrabbiato, impetuoso, con l'acqua che si divide a destra e a sinistra, sbattendo di continuo contro delle rocce sporgenti che da sotto squarciano la superficie deviandone per poco la corsa. La corrente incontra questi sassi rugosi, li aggira, viene tagliata da essi, e poi si ricongiunge dopo averli superati, si cicatrizza attorno a essi, e questi sassi mi sembrano formare una ferita dentro il fiume, delle schegge di vetro conficcate nella pelle dell'acqua.
All'inizio ho pensato di togliermi scarpe, calzini, pantaloni e maglia, restarmene in mutande e poi immergermi nell'acqua per guadare il fiume. Sarebbe la stata la scelta migliore, se avessi saputo nuotare abbastanza bene da riuscire ad oppormi alla corrente e non farmi trascinare via. No, sarebbe stato molto più saggio spostarsi a ovest, seguire il tragitto del fiume fino a trovare un ponte, o magari un passaggio stretto, un'insenatura dove il suo percorso prendesse la forma di un imbuto; ma ci avrei messo troppo tempo, senza neppure sapere se mai avrei trovato un ponte o un restringimento.
Ho guardato la sponda dall'altra parte. C'erano gli alberi, proprio come c'erano dietro di me. Tutto sembrava essere un'immagine speculare della sponda sulla quale mi trovavo. L’unica differenza ero io. Da una parte c'ero, dall'altra no. Se ne fossi stato capace avrei potuto piegare il paesaggio quel tanto da curvarlo su se stesso, facendo combaciare i contorni degli alberi, del fiume e di qualsiasi altra cosa con i contorni degli stessi oggetti dell'altra parte. In questo modo le due sponde si sarebbero trovate nello stesso punto, e io avrei potuto spostarmi dall’una all'altra semplicemente facendo ritornare il paesaggio speculare, non più curvato ma disteso. Sarei stato prima di qua e poi di là.
Fantascienza.
Ho provato a visualizzarmi dall'altra parte. Mi sono concentrato nel rappresentare il mio corpo in piedi sull'altra sponda. L'ho disegnato con la mente. Ho svuotato lo spazio necessario a contenermi, mettendo in equilibrio una bilancia immaginaria. Non ci sarebbe stata troppa materia su una sponda e poca materia sull'altra. Il vuoto che avrei colmato spostandomi su una sponda l'avrei utilizzato per riempire lo spazio che andavo a lasciare. Ce la potevo fare.
Ho preso la rincorsa. Il cuore mi batteva a mille ancora prima di iniziare a correre. Poi per un attimo mi sono tranquillizzato. Ho svuotato i polmoni, espirazione profonda. Il petto mi si è abbassato considerevolmente. Lo spazio tra pelle e ossa si è azzerato. Mi sono sentito pronto. Nell'istante in cui ho preso a correre il tempo si è fermato, tutto quanto si è bloccato. Nella mia testa non c'era più niente, era vuota, eppure non c'era lo spazio neppure per uno spillo.
Quando salto mi do la spinta con un piede, facendo forza sulla pianta, alzandomi per un istante sulla punta per poi spiccare un breve basso volo. Ad attendermi c'è sempre il suolo, o l'acqua.

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