martedì 12 luglio 2011

Stanchezza

A volte si sentiva talmente stanco da fare fatica pure a respirare. Si lasciava sfuggire un lungo lento sospiro e dentro di sé diceva: ecco, questo è l'ultimo, me lo sento. Invece i polmoni tornavano a riempirsi, per effetto meccanico: vuoto, pieno. Si ricordava di una specie di esperimento fatto a scuola per spiegare il funzionamento dell'apparato respiratorio. Non sapeva quanto questo ricordo fosse macchiato dal tempo, quanta parte di esso fosse reale e quanta al contrario fosse frutto della sua fantasia. C'era questo tubo di vetro trasparente, grande quanto una barra di uranio o un testimone che si usa nelle corse a staffetta, con dentro un palloncino. Un lato del tubo era aperto, rivestito con un altro palloncino in modo da creare un ambiente chiuso, dove l'aria non poteva né uscire né entrare. Se prendevi il palloncino all'estremità e lo allungavi, il palloncino all'interno si sgonfiava, quando lo rilasciavi, il palloncino all'interno tornava gonfio.
Con il tempo aveva perso per strada il senso di questo esperimento, non era più molto sicuro di cosa il maestro volesse dimostrare con tutto quello spettacolo, ma l'immagine gli era rimasta impressa, almeno quella che lui credeva di ricordare bene. Come spesso accade con le cose che si cercano di riafferrare dopo averle dimenticate, ci si costruisce una propria personale versione, non sempre aderente alle cose stesse che si cerca di ricordare; così lui con il tubo, il palloncino all'interno e il palloncino all'esterno, i suoi polmoni.
Il problema era che quando si sentiva così stanco da non riuscire quasi a respirare, la sua non era una stanchezza fisica, quanto piuttosto morale. Fosse stata fisica non avrebbe avuto di che lamentarsi: si sarebbe riposato, rimanendo una sera a casa sdraiato sul divano, oppure dormendo per un giorno intero. Ma la sua era una stanchezza che lo prendeva proprio dentro, sotto i muscoli, sotto gli stessi polmoni. Era un po' come se camminasse su una strada e sotto questa strada ci fosse tanta terra per circa dieci chilometri di profondità. Poi, a un tratto, la stanchezza lo prendeva e il terreno sotto la strada veniva polverizzato. Si ritrovava in questo modo a camminare su una strada che poggiava sul niente, spessa quanto un foglio di carta velina, sempre sul punto di rompersi sotto il suo peso.
In certe circostanze non riusciva a decidersi se essere la persona intenta a camminare sopra la strada oppure il terreno sotto la strada. Da una parte si sentiva proprio come chi si trova su una superficie precaria, mai sicura; da un'altra parte invece sentiva dentro proprio lo smussamento del terreno che scompare, di punto in bianco, lasciando il suo corpo senza più un sostegno interno. A volte si diceva di essere la persona sopra la strada, a volte si diceva di essere il terreno sotto la strada. In entrambe le situazioni si dimenticava sempre di porsi forse la domanda più importante: chi o cosa era la strada?

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