martedì 11 gennaio 2011

Rosso Oz

gli scoppi, i petardi, i petali di fiori persi, i fuochi artificiali alti nel cielo in mezzo al mare. la polvere da sparo spersa per le strade, e le calamite cadute dai frigoriferi portandosi dietro i calendari ormai scaduti, le foto bruciate dai bordi violenti, le noie infinite, le sedie distrutte, i tavoli imbanditi e i fuorilegge dagli occhi tagliati sottili. le stelle appassite di sceriffi ciechi, e le nuvole sbiadite nella notte, i venti forti provenienti da est, i venti forti provenienti da fuori. e porte e finestre e armadi aperti, l'apocalisse nei vestiti, mutande a tappeto sul pavimento sporco, la cenere delle sigarette e dei pensieri, la cenere buia di microgranuli svenduta in particelle povere. il breve riverbero rosso fuoco, rosso sulle tue labbra, quell'aspirazione profonda, giù nei polmoni e dentro la testa, la nebbia per impedire agli aerei di volare, e la pioggia fatta di rimpianti, la grandine schiacciata dalle palpebre, la faccia contorta, la faccia distorta, le precipitazioni umorali, i tornado a spazzare le praterie del kansas, e dorothy che muore ogni notte dentro il suo letto, le scarpette laccate per ritornare a casa, le strade lastricate d'oro, i ricordi coraggiosi che hanno un cuore, gli spaventapasseri a cacciare via la paura dalle braccia che tremano, che sentono freddo perché non le abbiamo vestite abbastanza, le dita che non si fermano, le dita fasciate dentro guanti strappati, come i sorrisi che ci siamo rubati a vicenda, in un modo o nell'altro, in minuti che ticchettavano lenti per non tornare più, testimoni di impresi epocali, o rapine ai treni in corsa, saccheggi e furti, di sacrifici umani.
dorothy moriva ogni notte per il nostro diletto, il nostro piacere nel vederla precipitare sempre più a fondo, dentro un letto fatto di spine e rose. i nostri occhi erano pieni di nostalgia rappresa, e con tutte le parole che non ci siamo detti riempivamo sacche gonfie di immagini, che erano sogni, che erano desideri, da esprimere in lenti capogiri dovuti all'ebbrezza, un contatto alieno di pensieri e gioie, capillari gonfi da scoppiare, dilatati come pupille all'inverosimile, lo spazio infinito tra ciglia e ciglia, tra labbra e guancie, i nodi tra i capelli, le forbici sul tavolo, i resti di colazioni andate ormai, già masticate e digerite e assimilate e dimenticate. è tempo di lobotomie preventive, di operazioni con il cervello nudo come il cielo, prima dei bombardamenti e delle esplosioni ad appena un soffio da noi.
respira piano, altrimenti ci trovano, nascosti tra l'erba alta fuori dai sentieri conosciuti, scappiamo tra città e città, con la forza dello strisciare bassi, tra le schegge del nostro volere e del nostro non volere, ci tratteniamo a stento facendoci tagli a vicenda, così profondi da poter vedere il sangue scorrere tra le vene e poi fuori, in bagni rossi quanto le tue labbra e le tue scarpe e l'alba non è mai così calda quanto il tramonto, all'orizzonte si perde il nostro sguardo così come il nostro tragitto, segnato con un arcobaleno alla meta designata, recidendo la metà disegnata, scriviamo in stampatello per farci capire meglio, o per lo meno cercare di.
respira piano, altrimenti ci sentono, ci vedono, abbracciati agli alberi facendo sculture di sagome adatte ai nostri fantasmi, il mio e il tuo, abbracciati l'un l'altra ai rami e alle radici, il terreno a ficcarsi tra le unghie delle mani, appena sotto il nero dello sporco rappreso, togliendo ogni magia allo smalto rosso che colora di scintille luminose le tue estremità, il bene e il male, il tuo nord e il tuo ovest, un lungo territorio inabitato, e il largo oceano a dividerci così tanto da farci perdere, da non farci più ritrovare, distinguere i colori, i sapori. ci assaggiamo solo per ricordarci di cosa siamo fatti e poi dimenticare tutto, dimenticare tutti. mentre l'atmosfera ci cade sulla testa aperta in scatole una più piccola dell'altra, un tuffo pericoloso nel buio della mente, la mia.
bussa tre volte chiamandomi per nome. batti tre volte i tacchi per tornare a casa.

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