martedì 18 gennaio 2011

Sacra Erza

sacro è il viso di chi ti sorride con sincerità profonda fino ad affondare le sue radici nei tuoi stessi occhi - sbattili piano perché è un dono di cui pochi possono vantare la capacità. - sacra era la cenere delle sigarette lasciata sul tavolo a sporcare gli interni, mentre Erza ancora si stirava i capelli blu elettrico passandosi una mano a pettine dalla nuca fino alle spalle, le parole confuse di una discussione persa nel vuoto o nel rumore scostante della musica a riempire la stanza, alta e bassa, la musica, stretta e larga, la camera dentro la quale perdevamo i nostri pomeriggi mentre fuori nevicava. sacre erano quelle scintille socchiuse dentro gli occhi di Erza che illuminavano il buio attorno a noi e guidavano le nostre mani ad afferrarci più saldi di prima, per paura di cadere ci eravamo allacciati dei falsi paracadute sulle spalle e quando li aprivamo facevamo finta di atterrare con le lenzuola divelte del letto sempre sfatto. sacra era la liturgia con la quale ci avvicinavamo piano per annusarci, facendo correre la punta dei nostri nasi sulla pelle tirata tesa del ventre, il mio il suo, facendo scorrere brividi a tratteggiare l'emozione non reprimibile. non premere sul freno, sussurrava lei a occhi chiusi, quando io invece volevo rallentare per prolungare quel viaggio strano, il volo verso terra a paracadute ancora chiuso, allargare le braccia su di lei e sentire il suo profumo passarmi veloce sotto le ascelle, oppure penetrarmi forte dentro le narici, violentarmi la testa fino ad arrivare dritto al cervello, appena dietro gli occhi, bruciare e bruciare a consumarmi l'immaginazione, l'unico carburante ancora decente per permettere al nostro baraccone zoppo di continuare a muoversi lungo lande deserte di soldi e spese e pranzi e cene non consumate, dimagrire chiusi aspettando chissà cosa, la manna dal cielo, o chissà chi, il proprietario dell'appartamento pronto a sbatterci fuori, a calci in culo sul marciapiede bagnato.
fuori faceva freddo. quando dovevamo uscire ci abbracciavamo con tutti i vestiti possibili tirati fuori dall'armadio. andavamo uno alla volta perché non avevamo abbastanza abiti per poterci riscaldare entrambi, tutti e due allo stesso tempo. così uscivamo a turno, a prendere aria, per rinnovare i polmoni - a forza di sigarette e chiuso, oltre all'anidride carbonica che ci scambiavamo, sembrava che i polmoni fossero diminuiti, rimpiccioliti dentro la cassa toracica, una specie di cassaforte che non conteneva più niente.
sacra era la visione di quanto ancora tutto poteva esserci tolto. ci avevano staccato la luce ma noi aprivamo le finestre per far passare il sole, e quando tramontava decidevamo di dormire, o di provarci, abbracciati l'uno all'altra su quel materasso scomodo che ogni notte si spezzava in due, steso sul pavimento, con le molle arrugginite a non schizzare neppure più fuori da quanto erano vecchie, logore nel loro tempo. ci avevano tagliato il gas, e all'inizio fu davvero dura, proprio d'inverno quando eravamo costretti ad alitarci nella coppa delle mani per riscaldarci almeno le dita.
se non riuscivo a tratteggiarla, Erza non esisteva, neppure quando era stesa accanto a me, rannicchiata in posizione fetale per trattenere il più possibile il calore del proprio corpo. mi dava le spalle vestita di una felpa e con pantaloni larghi di una tuta, ai piedi tre paia di calzini. fosse stato perfetto, il mondo o anche solo il nostro vivere, se avessimo potuto barattare il nostro futuro con un presente un po' più dignitoso, vendere la nostra anima al diavolo, siglare un accordo, con il sangue, dove devo mettere la firma? la stessa scena si sarebbe presentata con Erza con solo delle mutande e una canottiera stretta a lasciarle scoperta la vita, la parte inferiore della schiena. tutt'altro sapore - di fragole, di vaniglia, di sensatezza, realizzazione, completezza - avrebbe avuto il mio passarle l'indice lungo la linea segnata dalla colonna vertebrale, perché facendo così la rendevo ogni sera reale, vera, potevo dire che c'era ancora, che non fosse solo frutto della mia fantasia, una proiezione mentale con la quale giocare a sopravvivere. per questo erano tanto importanti le dita, il tatto sulle loro punte ci aiutava a non impazzire del tutto, nonostante ridessimo di continuo, perché l'arte di non abbattersi è fatta della stessa materia dell'arte di accontentarsi, di cullarsi nei suoi abbracci, di farsi bastare i suoi sorrisi, l'allegria che esce dalle sue labbra, più preziosa dei soldi, della ricchezza intera, l'oro vero di questo mondo. e se poi non avremo più niente, allora bruceremo noi stessi per non perdersi nel freddo.
sacra non è la qualità che ci fanno sognare o i televisori a schermo piatto con mille luci colorate, sacro non è il natale nel quale ci perdiamo in futili pacchetti, sacro non è neppure il tempo, quello prestatoci senza alcuna garanzia. sacro è quel che ancora non riescono a toglierci. sacro è il nostro corpo. sacro è il nostro desiderio, il nostro respiro, le nostre idee, quelle sono sacre. sacro è lo sguardo di Erza quando mi guarda, sacra è la mia risposta che le sussurro come un velo sopra le sue palpebre. sacro sono io. sacra è Erza. Sacri siamo noi, più del mondo e della sacralità tutta.

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