mercoledì 19 ottobre 2011

Cinque cose che non sapevo di David Foster Wallace

Quella di pubblicare Come diventare se stessi di David Lipsky non è stata una scelta facile. Il libro è la trascrizione di una serie di conversazioni fatte dall’autore con David Foster Wallace all’indomani dell’uscita di Infinite Jest, nel 1996, in vista della pubblicazione di un lungo profilo di Wallace su Rolling Stone; il profilo non è mai uscito, ma a distanza di quindici anni, e dopo la morte di Wallace, Lipsky ha deciso di raccogliere il contenuto di quelle conversazioni in un volume. Com’è ovvio, quindi, il suo interlocutore non ha avuto nessuna voce in capitolo sulla selezione del materiale. Se è vero che in queste pagine “David Foster Wallace si racconta”, come recita il sottotitolo, è vero anche che non saprà mai di averlo fatto in questa forma. Se fosse ancora vivo, forse Come diventare se stessi sarebbe un libro molto diverso (chissà se Wallace avrebbe autorizzato la pubblicazione delle pagine in cui racconta le sue esperienze di droga, il suo rapporto con le donne e altri dettagli della sua vita privata); o forse non sarebbe uscito affatto.
Il dilemma, quindi, è stato: rendiamo un buon servizio all’autore, traducendo un “suo” testo che lui non ha mai avuto modo di leggere e approvare, o commettiamo un abuso? Ci abbiamo pensato a lungo. Anche dopo esserci premurati di mettere a parte di questi dubbi l’agente di Wallace – che ci ha assicurato che il libro usciva con il proprio benestare e quello della famiglia – la sensazione di muoverci su un terreno eticamente insidioso non ci abbandonava del tutto.
Ma alla fine ci siamo convinti. A convincerci sono state le molte pagine del libro che, ne eravamo certi, David Foster Wallace non avrebbe rinnegato. Quelle in cui parla del senso del suo lavoro, del valore della letteratura nel nostro tempo, del rapporto ambiguo con il successo, dello smarrimento esistenziale di un’intera generazione e di come superarlo... Pagine intense, a volte profetiche, spesso dolorose, che sono il dono più grande di questo libro ai suoi lettori, e che vorrei lasciare a ciascuno il piacere di scoprire da sé.
Qui preferisco invece presentare cinque piccoli aneddoti personali che Wallace racconta nel libro, e che mi hanno commossa perché hanno a che fare con l’amore per i libri, il mestiere di scriverli, e il mestiere di pubblicarli e condividerli – che è anche il mio.

Come si leggeva nella famiglia di Wallace

Wallace, come credo molti dei suoi fan, è cresciuto in una casa piena di libri, che i genitori lo incoraggiavano a consumare a ritmo costante e forse persino eccessivo (il padre lo sottoponeva a lunghe letture ad alta voce di passi di Moby Dick). Ma al di là della sollecitudine di due intellettuali per la formazione culturale del figlio c’è un dettaglio straordinario che dà al quadro una luce diversa, e viene da pensare che ci sia proprio questo all’origine dell’idea di Wallace per cui la magia della letteratura consiste nel mettere in comunicazione le persone, sgominandone almeno temporaneamente la solitudine. È un particolare rubato all’intimità dei suoi genitori, e ci si sentirebbe quasi in imbarazzo nel venirne messi a parte, se non fosse per la sbalorditiva bellezza di questa immagine:

Ricordo che i miei si leggevano l’Ulisse ad alta voce, l’uno con l’altra, a letto: con un atteggiamento fichissimo, tenendosi per mano, tutti e due animati da quest’amore davvero feroce per qualcosa.

Quale copertina avrebbe voluto Wallace per Infinite Jest

Gran parte dei lettori – italiani e non – di Wallace sono abituati a vedere il suo libro più famoso con la stessa veste grafica: in copertina, un cielo con delle nuvole. L’illustrazione della prima edizione è stata replicata molte volte, con piccole variazioni sul tema, sia dagli editori angloamericani che da quelli italiani. Ma a Lipsky Wallace rivela che quell’illustrazione non piaceva. Gli ricordava troppo la brochure delle procedure di sicurezza dei voli American Airlines.

E invece cosa ci avresti voluto?
[...] C’è una foto stupenda di Fritz Lang che dirige Metropolis. Ce l’hai presente? Quella con lui in piedi e, non so, mille uomini con la testa rasata messi in fila, a falangi, e lui fermo lì con un megafono in mano? [...] Ma Michael ha detto che era troppo affollata e troppo, tipo, concettuale, che richiedeva troppo impegno mentale da parte del pubblico...


Come non dare ragione, da editor, a Michael Pietsch? L’immagine amata da Wallace è senza dubbio molto meno “facile” e immediata di quella effettivamente scelta per la copertina. E al tempo stesso, come negare che la foto di Fritz Lang, con la sua involontaria quanto sinistra allusione al totalitarismo dell’industria dell’intrattenimento, sia molto più vicina ai temi e alle atmosfere di Infinite Jest? Una copertina diversa avrebbe influito sulle sorti del libro? Per quegli scrittori e quegli editori che ogni giorno si trovano a combattere la classica battaglia fra “arte” e “mercato”, la domanda resta perennemente aperta.

Come Wallace umiliò pubblicamente una star di Hollywood

Durante un reading di Infinite Jest alla libreria Barnes & Noble di Union Square, Wallace scorge in mezzo al pubblico Ethan Hawke. Hawke è, in quel momento, reduce dal successo di Giovani, carini e disoccupati e Prima dell’alba, che lo hanno consacrato come sex symbol della Generazione X. Non sappiamo perché fosse al reading di Wallace, se per caso, per moda, per reale interesse. Sta di fatto che Wallace lo nota e

è successo questo, che ero molto nervoso, e mi è scappata una tipica scorreggia mentale. Un flash di un nanosecondo. Una cosa che ti esce di bocca e subito vorresti riacchiapparla. C’era tutto un pezzo sugli «attori di scarso successo che nei decenni precedenti sarebbero apparsi nelle televendite». E ci ho aggiunto «e nei film di Richard Linklater». Pensando che lui non l’avrebbe trovata una frase ostile.
Ma stando a Charis [Conn, editor di Harper’s], lui si è incazzato davvero. E allora ho pensato: «Oddio, poveraccio. Non può neanche mettersi all’ultima fila, non voleva farsi notare, voleva soltanto andare a sentire un reading». E io, per via del nervosismo, penso bene di lanciargli questa frecciatina condiscendente: mi sono sentito proprio un coglione. Un vero coglione. E se puoi, mi piacerebbe che me lo facessi dire, nel pezzo, che mi sono sentito come un totale coglione».

È raro, in un’intervista, sentire uno scrittore mettersi a nudo così. Confessare di aver provato un istinto basso e umano – il desiderio di rivalsa dell’intellettuale secchione sull’attore belloccio – confessare di averlo soddisfatto con goffaggine, confessare di essersene pentito e chiedere pubblicamente scusa. Chi crede che il grande dono di Wallace fosse l’ironia sbaglia; pochi come lui percepivano la pericolosità dell’ironia usata senza compassione.

Come Wallace si illuse di fare fesso il suo editor

Il manoscritto originario di Infinite Jest era di una lunghezza spropositata e preoccupante. Al momento di inviarlo al suo editor, Wallace ricorre a un trucchetto infantile.

Lo stampai a corpo nove, interlinea singola. E mi pare che così vennero, non so, 1070 pagine: in pratica, la lunghezza del libro finito.
Ma lui mi richiamò, e quella è stata l’unica volta che si sia mai davvero arrabbiato con me. Perché, mi disse, aveva cercato di leggere le prime cinquanta pagine e gli facevano male gli occhi, e cosa mi era saltato in testa, pensavo davvero che non si sarebbe accorto di quanto era lungo se lo stampavo così...

Pietsch obbliga Wallace a ristampare il manoscritto secondo la formattazione standard. Ne viene fuori un mastodonte: 1700 pagine. Seguono mesi di editing. Pietsch gli scrive una lettera di commento lunga 25 pagine. Wallace ne taglia 350. Pietsch fa una seconda lettura. I due si scambiano ore di telefonate. Vengono eliminate altre 100 pagine. Il libro raggiunge la sua forma attuale, ed ecco il giudizio finale dell’autore sul lavoro del suo editor:

Mi sono sentito proprio, non solo riconoscente verso di lui, ma intelligente io stesso.

Non c’è esempio migliore da portare a chi ritiene che l’editing sia una forma di arbitraria manipolazione della creatività altrui. Un buon editor non concede scorciatoie autoindulgenti, costringe l’autore a misurarsi onestamente con il testo, e ne distilla così le doti migliori: chi all’inizio del processo si credeva più furbo, alla fine si scopre più intelligente.

Come Wallace capì di avere la stoffa dello scrittore

È facile immaginare che un esordiente scopra il proprio talento per la scrittura grazie a un racconto (probabilmente autobiografico) lodato dagli amici, dagli insegnanti, da un altro scrittore; così come è facile immaginare che la scrittura sia questione di ispirazione, fantasia, creatività. E lo è, in effetti; ma è almeno altrettanto questione di orecchio, attenzione al dettaglio, tecnica e disciplina. David Foster Wallace, ad esempio, ha le prime avvisaglie di una delle sue più grandi doti di scrittore quando capisce di essere bravo a falsificare tesine universitarie:

Be’, avevo scritto della roba... all’università avevo scritto un paio di tesine per altra gente. Perché c’erano un sacco di ragazzi che... non era male, in effetti.
Ti pagavano per scrivergli le tesine?
Be’, non la metterei in maniera così brutale. Diciamo che c’erano sistemi di remunerazione piuttosto sofisticati. Ma... mi ricordo che una delle cose interessanti era leggere due o tre delle tesine scritte in precedenza da una certa persona per imparare, sai, che suono aveva la sua scrittura.

E mi ricordo che all’epoca lo capii: «Cavolo, sono proprio bravo a fare questa cosa. Sono uno strano tipo di falsario. Cioè, posso imitare lo stile di chiunque».


Preso qui: http://www.minimumfax.com/libri/magazine/346/0

Nessun commento: