mercoledì 26 ottobre 2011

Il re pallido

Esce in autunno per i tipi di Einaudi l’ultimo lavoro di David Foster Wallace, Il re pallido, un romanzo in pieno stile Wallace, benché “incompiuto” cioè assemblato dopo la morte dell’autore. E dopo Infine Jest lo scrittore rivolge la sua attenzione alla quotidianità: l’analisi lenticolare della vita dei dipendenti dell’IRS (l’agenzia esattoriale del governo federale americano), destinati tutti i giorni a sfogliare documenti di denuncia dei redditi. Ogni giorno sembra uguale, i protagonisti sembrano destinati a vivere nella noia. Ma forse è proprio questa sensazione che li rende persone eccezionali.
da ‘The New York Review of Books’

David Foster Wallace ha portato alla sua narrativa una precoce autorevolezza intellettuale. Doppia laurea in letteratura inglese e filosofia all’Amherst College, la sua tesi di laurea in Letteratura Inglese è poi diventata il suo primo romanzo, La scopa del sistema (ed. orig.: 1987, pubblicato in Italia per la prima volta nel 1999), mentre la sua tesi in filosofia, Taylor’s “Fatalism” and the Semantics of Physical Modality, è stata pubblicata lo scorso anno, arricchita da articoli di filosofi e accademici, con il titolo Fate, Time, and Language. An Essay on Free Will. La sua “fissazione per la matematica” lo ha portato a scrivere Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito (ed. orig. 2003, pubblicato in Italia nel 2005).

Soprattutto, il monumentale Infinite jest (ed. orig. 1996 e uscito in Italia per la prima volta nel 2000) ha rivelato Wallace come un’enciclopedia vivente in tutto ciò che trattava – tennis, droga, furto con scasso, Alcolisti Anonimi, case di recupero e reinserimento per tossicodipendenti, procedure ospedaliere, la vita delle gang nelle strade di Boston, e molto altro: sembrava conoscere cose che andavano oltre la portata della maggior parte dei romanzieri, la sua erudizione estesa alle oltre novantasei pagine (centoquaranta nell’edizione italiana, n.d.T.) di note. Si diceva che le bandane variopinte che era solito indossare intorno alle tempie a ogni apparizione pubblica fossero un sistema per impedire al suo prodigioso cervello di traboccare dalla scatola cranica.

I lettori hanno sempre considerato i romanzieri come esperti della realtà, forti di una superiore conoscenza della società contemporanea, capaci di istruire il neofita spaesato sui costumi e i principi morali del nuovo ordine delle cose. Infinite jest, intriso com’è di esperienza mondana, è valso a Wallace la reputazione di genio eclettico, non soltanto in possesso dell’esatta misura dell’America di oggi in tutto il suo opprimente disordine, ma pure capace di darle una configurazione etica e un significato. In tutta la sua frammentarietà, la sua enorme lunghezza, l’architettura postmoderna, la moltitudine brulicante di personaggi e le estenuanti lungaggini, il libro sembrava risolversi in un’omelia sincera e semplice come un sermone domenicale in un’antica chiesa di paese.

Ad attrarre irresistibilmente è stato il suo stile bric-à-brac. Wallace scriveva in un linguaggio che a una legione di lettori della sua generazione è sembrato incredibilmente simile al loro. Un linguaggio che incorporava acronimi e abbreviazioni da SMS, riferimenti casuali a programmi televisivi, fumetti e film, gergo tecnico, ironia glaciale, termini insoliti e passaggi in puro stile thriller che sarebbero potuti uscire dalla penna di un James M. Cain, accanto a chilometrici periodi sovraccarichi di dati sciorinati lungo la pagina in una ridda di addizioni, sottrazioni, attributi e digressioni, il tutto in maniera apparentemente spontanea e repentina, come in un flusso di coscienza. Questi periodi-fiume, troppo lunghi da riportare integralmente, sono meraviglie di fantasia e fluidità, ricchi di metafore e similitudini e regolati da un’infallibile capacità di ascoltare e riprodurre l’inglese-americano come viene parlato oggi (con conseguente, impressionante abilità nell’uso della punteggiatura). Sono troppo vecchio e troppoinglese per sentire questo idioma anche lontanamente come mio, ma dopo vent’anni di vita negli Stati Uniti sono in grado di riconoscere da lontano la sua assoluta fedeltà ai modi di parlare e di pensare che sento attorno a me.

Wallace ha stipulato un patto astuto coi suoi lettori nel momento in cui ha parlato di «duro lavoro» insito nella lettura di Infinite jest. Tutti noi tendiamo a dare più valore a quel che ci costa di più, e arrivare al termine delle 1281 pagine del libro richiede un impiego di tempo e forze decisamente elevato, con Wallace che peraltro fa tutto il possibile per rallentare la lettura e impedirci di fruire il romanzo come un’opera di intrattenimento passivo. Ci si trova a compiere una specie di parodia di una tesi di laurea nel fare continuamente la spola tra il testo e le note, con il dizionario a portata di mano per cercare termini come “embricare”, “annulazione”, o verificare se “amonimo” sia un errore di stampa o una parola a se stante (si tratta, credo, del primo caso – a meno che non si tratti di un nuovo termine derivante da Amon, marchese dell’Inferno e demone della goetica, pratica magica di invocare i demoni). Se tenti una lettura rapida sei perduto; bisogna che i periodi si formino dentro la testa, proposizione dopo proposizione, allo stesso ritmo di un discorso parlato. Il lettore diligente, che obbedisce alle istruzioni e ai comandi di Wallace e si prende un mese o più per completare la lettura, alla fine avrà il diritto di pensare di non aver soltanto “letto” Infinite jest, ma pure di aver superato un corso di laurea su Infinite jest.

Io non sono lettore così diligente, ma molti altri sì, come attestano i vari siti internet curati dai fan e dedicati all’opera di Wallace. Come ad esempiowww.thehowlingfantods.com. Qui lettori devoti si mischiano a letterati e accademici, condividendo documenti intercettati alle conferenze dell’autore, grafici traccianti le relazioni tra l’universo di personaggi di Infinite jest e notizie e curiosità riguardanti Wallace. Prima del suo suicidio nel 2008, Wallace era uno scrittore sempre più ammirato e studiato: da allora, lui e il suo lavoro sono diventati così amati e riveriti (e denigrati, da parte dell’inevitabile minoranza dissenziente) che è difficile leggere di lui in toni neutrali.

Il re pallido è annunciato come “un romanzo incompiuto”. Non lo è. Il mistero di Edwin Drood, il suo precedente più noto in questa categoria, era un romanzo incompiuto. Dickens aveva pubblicato le prime cinque parti (capitoli da 1 a 20) al ritmo di una al mese, e aveva appena completato la riga finale della sesta parte (capitoli 21-23) quando si ritirò verso il divano e venne colto da un colpo fatale, lasciando le restanti sei parti non scritte. Quel che Wallace ha lasciato sono montagne di carta: quasi tremila pagine di appunti, descrizioni, versioni di prova, bozze, schizzi. Alcune di queste pagine sono comparse su riviste; tutte erano collegate a ciò che l’autore chiamava «la cosa lunga» o «il Progetto», in ogni caso un’impresa di solito descritta in modo tetro. In una lettera all’amico Jonathan Franzen, Wallace scrisse che sentiva il bisogno di assemblare «un manoscritto di 5000 pagine, poi da sfoltire del 90%, l’idea stessa a tal proposito fa appassire qualcosa dentro di me, e mi porta a interessarmi realmente al mio carapace, o all’angolo che assume la luce esterna».

A Michael Pietsch, il suo editor alla Little, Brown (che ha pubblicato il libro in America, n.d.T.), dichiarò che lavorare al nuovo romanzo era come «lottare con fogli di legno di balsa1 in mezzo a una tempesta».

Pietsch ha poi operato una selezione di questi frammenti, li ha ordinati in una plausibile collocazione cronologica e, dopo una moderata revisione, ha assemblato il tutto in un libro che scorre come un’opera di David Foster Wallace, anche se è impossibile indovinare quanto si avvicini o sia distante dall’idea di romanzo che Wallace stava cercando di scrivere. Lo slancio narrativo che spingeva il lettore attraverso Infinite jestnon era un motore molto potente, ma bastava allo scopo; qui quello slancio è drammaticamente assente, eppure molte parti sono così coinvolgenti e ben scritte che abbandonare il libro diventa sorprendentemente difficile.

In un discorso agli studenti del Kenyon College alla cerimonia di laurea nel 2005, Wallace li aveva messi in guardia sul loro futuro arruolamento come soldati nelle «trincee quotidiane della vita adulta», della «meschina, frustrante merda» che li aspettava là fuori, e del «tran tran triste, noioso e apparentemente senza senso» in cui si sarebbero presto trovati immersi. Dichiarò che l’“impostazione predefinita” dell’essere umano è egocentrismo tendente al solipsismo, e che il valore di una formazione umanistica sta nel fornire i mezzi per scappare «dai minuscoli reami delle nostre scatole craniche» esercitando un’attenzione continua e metodica verso i dettagli meno evidenti delle nostre esistenze, e superando così il profondo egoismo della frustrazione individuale e della noia. Un superamento che potrebbe portare a «essere in grado di prendersi cura davvero di altre persone e di sacrificarsi per loro più e più volte, ogni giorno, in una miriade di modi banali e poco sexy». Il discorso, che mi colpisce per quanto sappia essere poco convincente, è comunque la migliore sinossi disponibile di quel che Wallace stava tentando di fare ne Il re pallido.

Le “trincee” del libro sono le file e file di scrivanie, ribattezzate “Tingles”, ognuna dotata di apposito cestino di metallo, in cui i dipendenti di primo livello (“GS-9” o “larve”) dell’Internal Revenue Service (agenzia esattoriale del governo federale degli Stati Uniti d’America, n.d.T.) controllano i moduli 1040 di dichiarazioni dei redditi presso il Centro Regionale d’Esame (“REC”) a Self-Storage Parkway, Peoria, Illinois. L’edificio del REC, descritto minuziosamente, è il monumento supremo alla noia adulta, regno di un lavoro talmente monotono e ripetitivo da instillare seducenti propositi suicidi perfino in un cristiano devoto come Lane Dean Jr., sposato da poco e padre di un bebè. Il capitolo 25 consiste in all’incirca 1300 parole, distribuite in doppie colonne non divise in paragrafi, in cui una moltitudine di persone elencate per nome semplicemente gira pagine: «Olive Borden volta pagina. Sandra Pounder volta pagina. Matt Redgate volta pagina e poi quasi immediatamente volta un’altra pagina. Latrice Theakston volta pagina…».

Stilisticamente Il re pallido è una precisa rinuncia ai facili piaceri di Infinite jest, e a ogni pagina ricorda quanto fosse frenetico e movimentato il libro precedente con le sue lotte, inseguimenti, omicidi, casi di overdose, partite di tennis, e il surrealismo scherzoso e spaccone della sua cornice postmoderna (O.N.A.N.2, il nuovo calendario sponsorizzato dalle grandi imprese, i guerriglieri del Quebec, la ricerca del film letale che dà il titolo al romanzo). Per contro, il romanzo diventa un quaresimale esercizio di abnegazione quando Wallace si concentra sull’assolutamente ordinario, sul dettaglio microscopico, alla maniera delle prime opere di Nicholson Baker come L’ammezzato eA temperatura ambiente.

Il tono di base del romanzo è stabilito bene nel capitolo 2, dove il GS-9 Claude Sylvanshine (i nomi pynchoneschi sono un elemento ricorrente dei romanzi di Wallace) è su un volo regionale, nella tappa finale del suo viaggio di ritorno dal REC di Rome, New York, alla sede centrale a Peoria. Seduto al suo posto accanto al finestrino nella fila di uscita, mentre l’aereo attraversa «le correnti ascensionali e discendenti come un gommone nel mezzo di una tempesta», Sylvanshine è alle prese con diverse incombenze contemporaneamente: i suoi pensieri vagano tra le istruzioni riportate sulla scheda di emergenza, l’angosciante movimento del velivolo, l’esame per il CPA per cui sta studiando incessantemente, la donna anziana nel sedile accanto al suo che sta cercando – senza riuscirci – di aprire un sacchetto mignon di noccioline, l’insoddisfacente primo appuntamento con una suonatrice di banjo a Rome, il panorama in costante mutamento fuori dal finestrino, gli esercizi isometrici per flettere le natiche, le mani degli anziani, la filosofia dell’IRS (detta anche «il Servizio»), l’entropia, lo stress, la «neurologia del fallimento», e il suo cappello.

Atterrato a Peoria, in attesa che i bagagli escano dalla stiva, Sylvanshine si imbarca in una frase lunga quasi tre pagine, in cui contempla la paralizzante logistica nel raggiungere Self-Storage Parkway e, una volta arrivato, se sia il caso di fermarsi prima al REC o al complesso di appartamenti dell’IRS conosciuto come Angler’s Cove (letteralmente, “la baia del pescatore”, n.d.T.). Questo capitolo è un pezzo di bravura, lucido e smagliante, dove Wallace fa quel che sa fare meglio: raccontare una mente che lotta per sopravvivere a una tempesta di informazioni e sensazioni, fino a raggiungere il limite estremo della crisi – destino naturale, se non inevitabile, per la maggior parte dei suoi personaggi.

Il re pallido è un romanzo storico ambientato nel 1985, quando l’Età dell’Informazione era ancora nella sua prima adolescenza, e la descrizione della vita a Self-Storage Parkway appare oggi curiosamente pittoresca. I computer sono mainframe (e temuti per le loro probabili capacità, che potrebbero lasciare i GS-9 senza lavoro). Termini come “laptop” o “desktop” non compaiono nel libro. I telefoni cellulari (pesanti, brutti e costosi) sono da poco entrati in commercio. Gli uomini indossano cappelli, i fumatori non sono ancora emarginati sociali, e i canali TV via cavo stanno appena iniziando a moltiplicarsi. Per la maggior parte degli scopi lavorativi è ancora l’era di carta-e-penna, e i dipendenti chini sulle file di scrivanie al REC di Peoria potrebbero benissimo essere gli stessi grigi impiegati di dickensiana memoria che silenziosamente vergano pagine su pagine di fogli protocollo con le loro penne d’oca.

Wallace si è documentato esaustivamente sul lavoro alla IRS come aveva fatto perInfinite jest a proposito delle droghe. Nel 1998, quando insegnava alla Illinois State University, parlò delle sue ricerche al regista Gus Van Sant, in una conversazione telefonica da quest’ultimo poi trascritta: «GVS: Uhm, dunque, ehm, come va il tuo corso?

DFW: Sono in congedo quest’anno. Sto seguendo io un corso, ma non sto insegnando. È veramente tosto, ma per ora resisto su una media tra C+ e B-.

GVS: Che corso è?

DFW: È, dunque, “contabilità fiscale avanzata”. Storia lunga, non la vuoi sapere. Ma è qualcosa che va davvero MOLTO oltre le mie facoltà mentali. È una classe per gente alla “Will Hunting”.

GVS: Oh mio Dio.

DFW: 35 pagine di roba tipo CPA, sai, incredibilmente dense, studiare di notte e poi fare il test il giorno successivo».

Saturo di nozioni di diritto tributario, Il re pallido trasforma l’IRS in una società autonoma con una propria storia (segnata dalle variazioni apportate dal Congresso al codice fiscale), una struttura di comando, un linguaggio ingannevolmente arcano e costumi e tradizioni gelosamente custodite. Soltanto i lettori che siano anche impiegati nella veraIRS noteranno chiaramente le differenze tra quel che Wallace ha liberamente inventato e ciò su cui invece si è documentato, e il romanzo, che esagera nel voler complicare continuamente il proprio status, non è mai tanto criptico come su questo punto. In ogni caso, il marchio ufficiale dell’IRS non è – come lui scrive – una rappresentazione di Bellerofonte che uccide l’Idra, il suo motto latino non è Alicui tamen faciendum est (che peraltro non si traduce con “Egli è colui che sta facendo un difficile e impopolare lavoro”; letteralmente: “tuttavia qualcuno lo deve fare”, n.d.R.), e agli agenti dell’IRS non vengono assegnati nuovi numeri della previdenza sociale, tutti inizianti con il numero 9, da portare con sé per il resto della loro vita. La maggior parte dei “fatti” del libro (quelli facilmente verificabili perlomeno) si rivelano essere opera di fantasia, ma il disimpegno di queste invenzioni non basta ad alleviare il senso di tristezza e fatica che avvolge l’edificio, sulla cui entrata principale si erge un gigantesco modulo 1040 piastrellato in lastre di terracotta.

Molte delle parti più piacevoli del libro riguardano le vite dei singoli personaggi prima della loro assunzione al REC di Peoria: Sylvanshine sul suo volo pendolare; Lane Dean e la compagna appena rimasta incinta; Chris Fogle, loquace studente di Chicago e i suoi approcci con le droghe; David Cusk, che suda abbondantemente; Leonard Stecyk, che avrà un futuro brillante alla IRS e viene dapprima tratteggiato come odioso idealista ai tempi della scuola elementare; Toni Ware, autodidatta, ingegnosamente vendicativa su larga scala, dalla personalità irreparabilmente distorta da un’infanzia selvaggia e violenta nel sottoproletariato delle case mobili; perfino un David Wallace (“ecco l’autore”), corredato da una biografia simile, ma fondamentalmente diversa, da quella dell’autore. Con l’eccezione di Toni Ware, la cui rigida psicopatologia la rende immune al cambiamento, tutti i personaggi, descritti e tratteggiati con precisione negli anni dell’infanzia e del college, diventeranno poi obbedienti fannulloni una volta entrati nel Servizio.

Non che si considerino fannulloni essi stessi, anzi: ai loro occhi sono eroi che si sacrificano per uno scopo più alto. Chris Fogle trova la sua vera vocazione quando, alla cattolica DePaul University di Chicago, confonde l’edificio in cui avrebbe dovuto seguire un corso sul pensiero politico americano negli articoli di The Federalist Paper3 con il suo gemello architettonico, dove si trova invece ad assistere a una lezione di contabilità avanzata, condotta da un insegnante supplente straordinariamente ipocrita: «Gli eroi veri siete voi, da soli in un luogo di lavoro designato. Il vero eroismo sono i minuti, le ore, le settimane, anno dopo anno, di silenzioso, preciso, giudizioso esercizio della correttezza – senza nessuno lì con voi a incitarvi o ad applaudire».

L’uomo recupera il suo cappello («un borsalino grigio scuro, vecchio ma molto ben curato») dall’attaccapanni e lo agita bene in alto: «Signori, preparatevi a indossare il cappello. Vi siete chiesti, forse, perché tutti i veri commercialisti portano il cappello? Perché sono i cowboy di oggi. E lo sarete anche voi. Cavalcherete le praterie americane. Porterete le mandrie ad abbeverarsi agli infiniti torrenti dei dati finanziari. I gorghi, le cascate, le variazioni predisposte, le minuzie più instabili. Voi ordinerete i dati, li guiderete, indirizzandone il flusso e conducendoli dove è necessario, come fa un buon pastore, nella forma codificata più appropriata. Avete a che fare con fatti, signori, per i quali esiste un mercato da quando il primo uomo è strisciato fuori dal brodo primordiale. Sarete voi, diteglielo, coloro che cavalcheranno, che presidieranno le mura, che taglieranno la torta, che serviranno in tavola».

L’uomo conclude la sua perorazione con: «Signori, voi siete chiamati a fare i conti». Wallace era satirico e predicatorio al tempo stesso, e l’idea dell’IRS, immaginata come una fondazione parareligiosa in cui l’individuo sfibrato ed egotico potrebbe trovare riscatto immolandosi al servizio di un bene più grande, si tratti di comica presunzione quanto di sincera certezza, sembra sia stata centrale nella sua concezione de Il re pallido.

L’abilità e la raffinatezza intellettuale di Wallace si sono sempre intrecciate con una franchezza morale e sociale dal candore quasi infantile che è una parte cruciale della sua narrativa. Quando Infinite jest è uscito nel 1996, i giornalisti che si sono recati a intervistarlo nell’Illinois sono rimasti sorpresi del fatto che i suoi amici più stretti fossero una coppia di anziani, Doug e Erin Poag, conosciuti da Wallace nella chiesa mennonita4 che frequentava. Frank Bruni del ‘New York Times’ si ritrovò nel salotto dei Poag mentre Wallace e la coppia sedevano davanti al televisore, a guardare X-Files e mangiare Kentucky Fried Chicken e cibo italiano. Wallace avrebbe poi pagato un biglietto aereo alla signora Poag per volare con lui a New York, dove Erin assisteva alle sue letture e presenziava alle sue interviste.

Gli altri affetti più cari erano i suoi due cani, entrambi bastardini adottati, di nome Jeeves e Drone (in omaggio ai romanzi di P.G. Wodehouse), poi rimpiazzati da Bella e Warner. Non molto tempo prima di suicidarsi, Wallace parlò alla moglie Karen Green (che aveva sposato nel 2004) dell’eventualità di smettere di scrivere per aprire insieme un rifugio per cani5. Questo lato dell’autore, il Wallace praticante devoto, cinofilo, affezionato ai panorami rurali della sua giovinezza in Illinois, impregnato della convinzione che la narrativa esista per far sentire i lettori meno soli e quindi aiutarli a migliorare le loro vite, è una presenza impalpabile ma costante ne Il re pallido.

Nei suoi appunti sul libro (troppo pochi dei quali sono inclusi nella succinta appendice di nove pagine) Wallace ha chiarito quel che sperava di fare. Avrebbe preso l’impiego più noioso e ripetitivo immaginabile, applicato a esso la stessa formula di “attenzione accentuata + consapevolezza” che aveva proposto ai laureati del Kenyon College, e dimostrato come un lavoro monotono e fastidioso possa lastricare la via per raggiungere la grazia di Dio e la salvezza dell’anima: «La capacità di prestare attenzione. Viene fuori che la felicità (un misto di gioia secondo per secondo e gratitudine per il dono di essere vivi) si trova alla fine della noia più schiacciante, più tremenda. Prestate particolare attenzione alla cosa più noiosa che possiate trovare (la dichiarazione dei redditi, le partite di golf in televisione), e una noia come non l’avete mai conosciuta si abbatterà su di voi a ondate, fin quasi a uccidervi. Superatela, e sarà come fare un passo avanti dal bianco e nero al colore. Come l’acqua dopo giorni nel deserto. Beatitudine costante in ogni atomo».

In pratica è una variante sul vecchio e familiare tema cristiano di come nobilitare fatiche umili pensando di starle svolgendo al servizio di Cristo. Tema già accennato da Milton in On His Blindness («Lo servono anche coloro che solo gli stanno vicino e aspettano») ed esplorato da George Herbert in The Elixir: «Tutto può prender parte di Te: / Nulla è così meschino, / da non poter con la sua sostanza (per amor tuo), / crescere luminoso e puro. // Un servo con tale disposizione / Rende divino ogni lavoro ingrato: / Chi spazza una stanza, in / obbedienza alle tue leggi, / fa di questo una cosa preziosa. // Questa è la pietra famosa che cambia tutto in oro…».

Ma i cristiani, con il loro dio soprannaturale e la sua promessa di una vita dopo la morte, disponevano di armi superiori a quelle di Wallace, che al Kenyon College insistette che «la Verità con la V maiuscola è da ricercarsi nella vita PRIMA della morte» e, sebbene andasse in chiesa, non sembra sia stato un credente. Nei suoi appunti, gli esempi di “beatitudine attraverso l’attenzione” sono in qualche modo deboli: un «ragazzo asiatico» in una libreria che mantiene la stessa identica posizione nella sua sedia per ottanta minuti mentre studia e prende appunti su un libro di statistica, una guardia di sicurezza presso una cooperativa di credito, costantemente vigile a ogni variazione di movimento tra le masse di persone in entrata e in uscita, una «donna alla catena di montaggio che conta il numero di giri di spago visibile sul lato esterno della balla». «Contare, continuamente e ripetutamente. Quando suona la sirena ogni altro operaio corre praticamente verso l’uscita. Lei rimane per un po’, assorta nel suo lavoro. È la capacità di rimanere immersi.»

Nelle pagine de Il re pallido che abbiamo, soltanto il capitolo 46 tenta davvero di mettere in pratica la teoria alchemica di Wallace. Il venerdì pomeriggio una cricca abituale di impiegati dell’IRS si ritrova al cocktail bar di Meibeyer, che «propone una serie di drink in offerta speciale prezzati in base al costo approssimativo della benzina e al deprezzamento del veicolo occorrenti per percorrere le 2,3 miglia di tragitto dal REC allo svincolo Southport-474».

Lì siede Meredith Rand, una GS-10, in compagnia del GS-9 Shane Drinion, collega nel suo gruppo di lavoro, o “pod” (letteralmente, “baccello”, n.d.T.). Bellissima, Meredith era conosciuta come “la volpe” ai tempi del liceo; Shane invece è talmente anonimo che un paragrafo di descrizione dettagliata termina con: «È quel tipo di persona che devi guardare molto attentamente anche solo per essere in grado di descrivere». Lei fuma, lui no. Lei beve gin and tonic con una spruzzata di lime, lui birra Michelob. Nel corso di sessantacinque pagine Meredith intrattiene con Shane quel che lei chiama un tête-à-tête e gli racconta di quando ha trascorso tre settimane e mezzo ne «il bidone. Il Marriott mentale. Il reparto dei matti» quando aveva diciassette anni e una propensione all’autolesionismo compulsivo, e di come sia stata soccorsa da un infermiere di trentadue anni di nome Ed Rand, che poi sarebbe diventato suo marito e ora sta lentamente morendo di cardiomiopatia.

Il racconto di Meredith Rand è assolutamente appassionante, e Wallace dimostra tutta la sua ventriloqua abilità nel trovare per ogni suo personaggio una voce che sembri sorprendentemente vera e reale. Rand è la persona singola più interessante del libro. Il suo grandioso monologo egotico la porta di volta in volta a confidarsi con Shane e il momento dopo a deriderlo; intelligente, impaziente, civettuola, arrabbiata, è come un gatto che gioca con un topo in trappola. In un appunto, Wallace ha scritto di lei: «Critiche dell’IRS a Meredith Rand: molto carina ma piantagrane della peggior specie, averla intorno è straziante – l’ipotesi è che il marito disponga di un qualche tipo di apparecchio acustico da poter spegnere a piacimento».

Ma è Shane Drinion il vero epicentro del capitolo. Si esprime in brevi, pedanti domande e interpolazioni, con un’esagerata mancanza di interesse, come fosse affetto da un disturbo autistico della sfera affettiva. Le sue risposte si limitano a considerazioni del tutto prive di emozioni: no, non è mai stato a un appuntamento; no, non ha paura di venire scambiato per un omosessuale. Lei gli chiede: «Questa conversazione ti sta annoiando?» Drinion risponde: «No, per la maggior parte no».

«“E qual è la parte che ti annoia?” “Non userei il termine ‘annoiare’. Certe volte tendi a ripetere le stesse cose, o dirle di nuovo, solo in un modo leggermente diverso. Queste parti non aggiungono alcuna nuova informazione, dunque queste parti richiedono più impegno nel prestarti attenzione…”»

Il talento di Drinion nel prestare attenzione viene premiato da Wallace con un altro dono: la capacità inconscia di levitare. Con il procedere della conversazione, Shane viene visto salire dal suo sgabello, all’inizio quasi impercettibilmente, «uno o due millimetri al massimo», poi prendendo quota pian piano: «Drinion al momento sta levitando leggermente, che è ciò che accade quando è completamente immerso; per ora la salita è lieve, nessuno può accorgersi che il suo posteriore galleggia leggermente sopra lo sgabello. Una notte qualcuno entra in ufficio e vede Drinion fluttuare a testa in giù sopra la sua scrivania con gli occhi incollati a un’operazione sullo schermo del pc; Drinion stesso è per definizione ignaro della sua capacità, dal momento che solo quando la sua attenzione è totalmente assorbita da qualcos’altro avviene la levitazione».

Ben presto, Shane è a circa due centimetri sopra la sedia, e «le suole di gomma delle sue scarpe da lavoro, scure ai bordi per lo stesso processo per cui scuriscono le gomme da cancellare, fluttuano leggermente sopra il pavimento».

È demoralizzante che Wallace, nel tentativo di avvalorare il suo argomento – un tema che è l’anima principale del libro – ricorra a un trucco soprannaturale, per giunta piuttosto banale. La beatitudine laica insita nella concentrazione e nella consapevolezza iperaccentuata è un miraggio, vagamente intravisto in lontananza ne Il re pallido, ma mai raggiunto e probabilmente irraggiungibile.

La noia, quella la percepiamo tutta (alcune pagine sono talmente noiose da leggere che sarebbe molto più interessante vagliare migliaia di moduli 1040 di sconosciuti). Ma l’idea di base di Wallace di penetrare nella fatica del mondo adulto ed emergere sul suo lato opposto in possesso della rivelazione trascendente qui è così irrealizzata che il lettore difficilmente può immaginare come sarebbe potuto essere altrimenti. Il meglio che si può fare è pensare a Il re pallido come a un romanzo a metà – a esser buoni – e credere che il suo autore sia stato capace di tirare fuori il miracolo nelle pagine che gli restavano da scrivere, il che non è inconcepibile. Lo ha fatto in Infinite jest, dove il filo conduttore centrale è la storia di Don W. Gately, incontrato per la prima volta con indosso una grottesca maschera da Halloween, un ladro tossicomane, omicida accidentale, il cui percorso di redenzione nel corso del libro fornisce una “morale” che è estremamente vicina al “connettere le cose” di Margaret Schlegel in Casa Howard. Wallace amava l’ambiguità e l’ironia provocatoria, ma quando si trattava di morale tirava fuori una profonda vena fondamentalista del suo carattere, una sete sconcertante, purissima, di «Verità con la V maiuscola».

Il re pallido è tristemente offuscato dalla lunga ombra del suicidio di Wallace, con tutti i particolari memorabilmente atroci del caso (la cintura, il nastro isolante, la sedia sdraio, la traversa superiore del patio sul retro di casa). La sua ambizione irrisolta di trovare un significato nell’ordinarietà della vita adulta, di esplorare noia e frustrazione come condizioni umane necessarie e interessanti, riempie queste pagine di vitalità, anche nei momenti di stasi e nei vicoli ciechi. Era chiaramente inteso dal suo autore come un lavoro di transizione, di metà carriera, che avrebbe portato Wallace a spostarsi dalla giovanile stravaganza e la maestria da grande intrattenitore che utilizza i bizzarri propositi e i demoni della giovinezza a uno stile più maturo e sobrio che avrebbe potuto adottare parlando di Peoria, la città a lungo nota (per quanto ingiustamente) come un sinonimo per tutto ciò che fosse di basso profilo e rappresentasse a tutti gli effetti la medietà americana («Sarà ambientato a Peoria?»).

Oppure ci si potrebbe anche accontentare di vedere in lui il possibile futuro titolare di un canile, un tempo romanziere famoso, come lo scrittore statunitense Henry Roth durante i sessant’anni di silenzio tra Chiamalo sonno e Alla mercè di una brutale corrente, in gran parte spesi a gestire un allevamento di papere nel Maine. Che Wallace abbia eliminato entrambe le opzioni in un anonimo tardo pomeriggio di fine settembre a Claremont, California, sembra al tempo stesso indicibilmente triste (per usare uno dei suoi termini preferiti) e una negazione brutale di tutto ciò che egli intendeva Il re pallido avrebbe potuto incarnare.

(Traduzione di Matteo Cortesi)

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tratto da 451 online


Preso qui: http://www.raccontopostmoderno.com/2011/07/david-foster-wallace-il-re-pallido/

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