lunedì 27 agosto 2012

Ogni cosa è illuminata

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Quale impressione avrebbe suscitato, se la vera fonte di tutti i consigli fosse andata in cerca di consigli?

“Quanta moneta avrò per le mie affatiche?” ho interrogato, perché questo dilemma aveva su di me molta pesantezza. “Meno di quello che pensi di meritare” ha risposto lui, “e più di quello che meriti.” Questo mi ha molto, moltissimo infastidito, e ho detto al Babbo: “Allora può essere che non lo voglio fare”. “Non mi interessa quello che tu vuoi fare” ha detto lui e si è disteso per mettere una mano sulla mia spalla. Nella mia famiglia, il Babbo è campione del mondo nel troncare il dialogo.

Che cos’è essere svegli se non interpretare i nostri sogni, e cos’è sognare se non interpretare la nostra veglia?

Da bambino gli era venuto in mente per la prima volta che doveva provare a capire cosa poteva significare non essere vivi: non trovarsi al buio, o senza sensi – ma essere non-essenti, non essere.

Era un uomo che tutti ammiravano e apprezzavano, e nessuno conosceva. Come un libro di cui si può percepire il valore tenendolo in mano, di cui si può parlare senza averlo mai letto, un libro che si può raccomandare.

Lo so che mi hai chiesto di non cambiare gli sbagli perché hanno un suono buffo, e il buffo è l’unico modo veritiero di raccontare una storia triste

“C’è un che di strano nella foto, la vicinanza fra loro due, anche se non si stanno guardando? Il modo in cui non si stanno guardando. La distanza. Fa un grade effetto, non credi? E le parole sul retro.” “Si.” “E anche il fatto che abbiamo pensato tutti e due alla possibilità che lui l’amasse, è strano.” “Si” ho detto. “Una parte di me vorrebbe che l’avesse amata, e una parte di me respinge questa idea.” “Qual è la parte di te che respinge che lui l’ha amata?” “Be’, è bello pensare che certe cose siano insostituibili.” “Io non capisco. Lui ha sposato tua nonna di adesso, quindi qualcosa deve essere stato sostituito.” “Però questo è diverso.“ “Perché?” “Perché lei è mia nonna.” “Augustine poteva essere tua nonna.”

Dio è triste?
Per essere triste dovrebbe esistere, no?
Lo so,
disse lei, dandogli un leggero buffetto sulla spalla. È per quello che lo chiedevo, per sapere finalmente se ci credi!
Allora ti dirò questo: se Dio esiste, ha molte ragioni per essere triste. E se non esiste, secondo me anche questo Lo rattrista non poco. Insomma, per rispondere alla tua domanda, dio deve essere triste.


Si doveva accontentare dell’idea dell’amore – di amare il fatto di amare cose della cui esistenza non le importava affatto. L’amore in sé divenne oggetto del suo amore. Lei amava se stessa innamorata, amava amare l’amore come l’amore ama amare: ed era in grado, quindi, di riconciliarsi con un mondo tanto diverso da quello che avrebbe auspicato. Non era il mondo la grande menzogna salutare: lo era la sua volontà di renderlo bello e giusto, di vivere una vita già-avulsa in un mondo già-avulso da quello dove tutti gli altri sembravano esistere.

Si scambiavano a vicenda la grande bugia salvatrice – che il nostro amore per le cose sia più grande del nostro amore per il nostro amore per le cose – recitando di buon grado le parti che scrivevano per sé, creando di buon grado le finzioni necessarie alla vita, e credendoci.

È così assurdo immaginarsi uno dei tuoi genitori o dei tuoi nonni che sogna. Se sognano, allora sognano di quando non ci sei e pensano a cose che non sono te. E poi, se sognano, devono avere dei sogni, che è un’altra cosa da pensarci sopra.

Questo è l’amore, pensava lei, si o no? Quando noti l’assenza di qualcuno, e detesti quell’assenza più di ogni altra cosa. Ancora più di quanto ami la sua presenza.

Quando si svegliava in pianto da uno dei suoi incubi, l’uomo di Kolki le stava vicino, le accarezzava i capelli, raccoglieva le sue lacrime in ditali per dargliele da bere l’indomani mattina (l’unico modo per vincere la tristezza è consumarla, diceva)

Non ha sofferto, le dissero. Anzi, non ha provato niente. Questo la fece piangere ancor di più, e più forte. La morte è la sola cosa nella vita di cui sia necessario essere coscienti mentre accade.

Per il tuo compleanno ti ho comprato un regalo.
È il mio compleanno?
È il tuo compleanno.
Devono essere diciassette.
Diciotto.
E qual è la sorpresa?
Se te lo dico, addio sorpresa.
Io odio le sorprese,
disse lei.
Ma a me piacciono tanto.
Per chi è il regalo? Per te o per me?
Il regalo è per te,
rispose lui. La sorpresa è per me.
E se io ti sorprendessi dicendoti di tenere il regalo? Così la sorpresa sarebbe per me, e il regalo per te.
Ma tu odi le sorprese.
Lo so. Quindi dammelo subito.


I minuti si sfilarono. Caddero sul pavimento e rotolarono per casa, perdendosi.

Ritagliò un cerchio attorno al buco che l’aveva divisa dall’uomo di Kolki in quegli ultimi mesi e si mise alla collana l’anello di pino, accanto alla pallina d’abaco che Yankel le aveva regalato tanti, tanti anni prima. Questo nuovo amuleto le avrebbe ricordato il secondo uomo che aveva perso nei suoi diciotto anni, e anche il foro che, lo stava imparando, nella vita non è eccezione, ma regola. Il foro non è il vuoto; il vuoto esiste attorno a esso.

La gonna rosa era vistosamente pulita e inamidata – troppo pulita, troppo inamidata – come se l’avesse lavata e stirata decine di volte. Lei era molto bella, è vero, bella per l’attenzione meticolosa, compassionevole che riservava al minimo dettaglio. Se qualcuno avesse detto che suo marito era immortale, in quanto almeno l’energia delle sue cellule si scioglieva nella terra alimentandola e fertilizzandola e incoraggiando nuova vita a crescere, allora il suo amore avrebbe continuato a vivere, disciolto nelle migliaia di mansioni quotidiane – un amore di tali proporzioni che anche così frammentato bastava per cucire i bottoni di camice che non sarebbero state mai più indossate, e raccogliere rami caduti alla base degli alberi e lavare e stirare le gonne almeno dieci volte prima di vestirle.

Il ricordo avrebbe dovuto riempire il tempo, ma rendeva il tempo un buco da riempire.

Jonathan Safran Foer

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