martedì 22 gennaio 2013

Vasco

Quando aveva quindici anni era un ragazzino tranquillo – troppo tranquillo – di quelli che si possono vedere seduti da soli nelle panchine dei parchi a leggere un libro (cosa assai strana per un’età nella quale i libri dovrebbero essere il nemico assoluto e il pallone, o lo svago, la corsa a perdifiato per un qualsiasi tipo di sport, dovrebbe rappresentare l’unico modo possibile per riempire il tempo libero). Vicino agli anziani che davano da mangiare briciole di pane rinsecchite alle anatre, per farle avvicinare e farle vedere a nipoti interessati a tutto tranne appunto alle anatre, lui sedeva per davvero, spesso, da solo, lontano metri e metri dai suoi coetanei, a leggere un libro di fantascienza. Gli piaceva perdersi in mondi sempre nuovi, futuri lontani nei quali i viaggi intergalattici erano all’ordine del giorno e astronavi gigantesche transitavano nello spazio tra i vari pianeti brillando della stessa luce delle stelle che si lasciavano alle spalle. Grazie a quei romanzi poteva vivere avventure diverse ogni giorno, trasformandosi da essere umano a robot, da robot ad androide, da androide a replicante, da replicante a eroe, e tornare poi, ogni volta che chiudeva il libro, a essere di nuovo se stesso, senza lasciare tracce di quanto aveva appena vissuto.
A quell’età aveva una fitta distesa di acne giovanile a coprirgli tutta la fronte, brufoli dalla base rossastra alcuni dei quali incorniciati da intense aureole giallo acido. Li nascondeva con una pettinatura spiaccicata in avanti che faceva apparire la sua testa quasi perfettamente sferica, grazie all’aderenza maniacale con la quale ogni mattina si pettinava cercando di seguire le linee rotonde del suo cranio. A volte il vento, o qualche amico – quale amico? Aveva davvero degli amici a quindici anni? Amici veri, reali, persone che poi avrebbe di nuovo frequentato per il tempo dell’università e del lavoro? – gli apriva la frangia come se fosse una tenda da salotto, spostandola di lato. In casi del genere lui restava calmo, imperturbabile, riportando con un rapido gesto di mano i capelli a coprire di nuovo le sue vergone, senza badare troppo a quanto successo. Continuava a parlare se stava parlando, ad ascoltare se stava ascoltando, a non fare nulla se non stava facendo proprio nulla, come se nulla fosse, appunto, successo.
Era magro, ma non in modo eccessivo. Niente di preoccupante sotto l’aspetto alimentare. Mangiava regolarmente, abbuffandosi sia a pranzo che a cena e inserendo nel mezzo una lauta merenda pomeridiana, senza contare le ricche colazioni con le quali iniziava la giornata, con brioche straboccanti di crema e/o cioccolata e cappuccini schiumosi dentro i quali affondava tre generosi cucchiai di zucchero; ma non riusciva a ingrassare abbastanza da mettere un po’ di carne attorno alle ossa e poter essere definito, a vista, una persona sana. Aveva un’aria deperita, complici anche le guance infossate sulle quali non era presente neppure un minimo accenno di barba; rachitico nella sua postura tutta rannicchiata su se stesso, quasi si volesse avviluppare in un abbraccio che non riusciva a dare a nessun altro. Dava l’impressione di essere di continuo sull’orlo di una fame profonda, che lo costringeva a masticare l’aria senza riuscire a mettere niente sotto i denti. La dimostrazione più lampante della sua forse eccessiva magrezza era quando alzava la mano in classe per intervenire durante una lezione. Nel nugolo di teste abbassate sui libri e sui quaderni per prendere appunti, il suo braccio si stagliava verso l’alto come un ramo secco striminzito, liscio e privo di qualsiasi protuberanza o nodo: una specie di piccola asta sulla quale appendere una bandiera bianca per arrendersi.
A scuola voleva passare inosservato. Non indossava mai niente che potesse attirare attenzione, in particolare. Si limitava a vestire delle anonime maglie di lana dai colori neutrali, quando era freddo, o semplici camice a righe o a scacchi o a tinta unita, quando invece l’inverno non era ancora arrivato oppure era appena passato. Non era interessato a scarpe ultra ergonomiche, studiate appositamente per non sforzare la pianta del piede, e come pantaloni portava dei semplici jeans né larghi né stretti, né a vita larga o a vita bassa, solo dei jeans scuri, senza strappi o scuciture, niente risvolti, cerniera lampo e non bottoni: jeans blu, blue jeans. Questo lo collocava in un particolare segmento alquanto esile che separava due categorie diverse di studenti, permettendogli di non appartenere a nessuna di queste e di vivere la propria vita scolastica senza grossi traumi causati dai ragazzi più grandi e più fighi e più belli e più fumatori nei cortili o nei bagni, né essere oggetto delle attenzioni maniacali dei più studiosi e appassionati quattrocchi con apparecchi odontoiatrici, mobili o fissi, e capelli talmente unti da apparire lucidi.

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