martedì 18 giugno 2013

Non solo i cervelli fuggono dall'Italia

Breve riflessione sulle dichiarazioni del consigliere comunale Valandro sul ministro Kyenge (e relative presunte scuse)

Al nord, è risaputo, la Lega Nord (o quel che ne resta) domina incontrastata nonostante già nel nome del partito sia presente un grave errore, o per lo meno una grave omissione. Lega, ok, Nord, appunto, ma quale nord? Se i dirigenti avessero voluto fare le cose a modo, il movimento si sarebbe dovuto chiamare “Lega Nord Italia”. Non è un mistero infatti che quello che per noi è nord sia allo stesso tempo sud per qualcun altro. Basta leggere lo stesso nome con gli occhi di una persona che abita per esempio a Berlino e il partito di Maroni diventa un ossimoro complicato del quale è difficile cogliere il significato. Quale Lega Nord se loro sono al sud, si chiederebbe il cittadino tedesco.
Questo per sottolineare quanto qualsiasi cosa possa essere relativa e quanto, allo stesso tempo, le parole dovrebbero essere usate con attenzione. Quest’ultime sono un’invenzione dell’uomo e come qualsiasi invenzione esse possono essere utilizzate nel modo giusto (la ruota quale ingranaggio di un mezzo per spostarsi) o nel modo sbagliato (la stessa ruota di cui sopra usata per lavarsi i denti). Nei giorni scorsi il consigliere comunale Dolores Valandro di Padova ha usato le parole a sua disposizione nel modo più sbagliatissimo possibile (l’errore è voluto per evidenziare il grado di gravità di tali parole):
“Mai nessuno che la stupri?”
riferendosi al ministro per l’integrazione Cecile Kyenge.
Tenendo presente che il consigliere comunale esercita la sua fede politica sotto la bandiera della Lega Nord (Italia), e che la frase sopra riportata è stata scritta (su Facebook) a seguito dell’ultima tornata elettorale, che ha visto la Lega Nord (Italia) perdere consensi nonché comuni, le parole hanno avuto una cassa di risonanza tale da non poter passare inosservate.
Non appena la notizia è stata raccolta da testate giornalistiche nazionali, il consigliere comunale si è prontamente scusata con la diretta interessata (che per inciso è una donna di colore), sebbene non di persona (e qui mi domando che tipo di scuse possano mai essere quelle rilasciate ai mezzi di stampa [scuse di circostanza per cercare di recuperare la propria figura pubblica, mi rispondo io]), sottolineando però quanto le sue esternazioni fossero solo il risultato di un momento di rabbia.
Non so cosa Dolores Valandro volesse ottenere con una dichiarazione del genere, ma quello che a me è parso di sentire è un estremo tentativo di trovare una scusante, del tipo: non nego di aver detto quelle parole, ma non potete condannarmi perché non lo dicevo sul serio, quando sono arrabbiata non sono io a parlare, è la rabbia. Ammesso e non concesso che tutta questa personale ricostruzione dei fatti sia veritiera, ovvero che quelle parole siano state dette davvero in un momento di rabbia e non perché il consigliere comunale le pensasse davvero (lo spero), questo non dovrebbe essere certo una scusante. La rabbia, se è il sentimento che ha parlato al posto del consigliere, è pur sempre di sua proprietà ed è di sua responsabilità. Non ci si può nascondere dietro la scusa della rabbia per giustificare parole come quelle sopra riportate.
La cosa che mi ha sconvolto, oltre al fatto che alcune compagne di partito abbiano avuto la faccia tosta di provare pure a giustificare Valandro dicendo che lei non aveva fatto altro che dire quello che il popolo pensava (ma il popolo, o per lo meno la maggior parte di esso, pensa pure che tutta la classe politica sia marcia, che i parlamentari e i senatori guadagnino troppo sia sotto forma di sussidi che di stipendi, eppure tutto questo non è stato esternato da Valandro), è soprattutto che da un certo punto di vista questa dichiarazione di “scusa” sia stata accolta dall’opinione pubblica senza battere ciglio. Forse era quanto ci si aspettava, era il massimo che Valandro potesse dire dopo avere messo il piede, o per meglio dire la lingua (ma questa parola porterebbe ad altri scandali a causa della parola che segue), in fallo. Quando l’ho ascoltata, alla radio in auto mentre tornavo a casa, la prima reazione è stata quella di disgusto, a livello viscerale in modo istintivo, poi riflettendoci bene, in un secondo momento dopo avere metabolizzato le informazioni, mi è parsa la più classica delle lavate di mano: Valandro ha chiesto scusa ma non si è assunta la responsabilità di quanto detto. Ha demandato la responsabilità di quelle parole alla sua Rabbia, dividendola da sé stessa.
Se da una parte le dichiarazioni iniziali di Valandro risultano essere un grave uso delle parole, le successive scuse sono un vergognoso utilizzo di dialettica per distogliere l’attenzione dell’ascoltatore dal vero senso del discorso. Sono due aspetti entrambi da condannare, ma se le prime frasi hanno alzato un fuoco di indignazione (giusto), le seconde, quelle che avrebbero dovuto rappresentare le “scuse” ufficiali, non hanno portato alla stessa indignazione. Molto probabilmente perché le seconde sono mascherate da un leggero velo retorica, mentre le prime si sono presentate nude e crude in tutta la loro violenza. Non voglio soffermarmi sulle prime, visto che tanto chiunque ci si può soffermare e tutti i maggiori organi di stampa lo hanno già fatto (come era doveroso fare) ma voglio porre uno sguardo più attento sulle presunte scuse. Queste, secondo me, sono davvero vergognose e sono l’ennesimo specchio di cosa sia oggi la realtà italiana.
In un paese che sembra essere allo sbando, con un tasso di disoccupazione in costante crescita e un peso fiscale sopra la media europea, tutti quanti paiono non avere altro obbiettivo, scusate il francesismo, di pararsi il culo. In Italia, come potrebbe avvenire benissimo in altri paesi, c’è una fuga incredibile non tanto di cervelli quanto piuttosto di sbagli. Se si ascoltano dichiarazioni e/o interviste sembrerebbe che nesssuno, qui, sbagli mai: non c’è nessuno che abbia l’onestà intellettuale di ammettere di avere sbagliato, in modo chiaro e semplice. C’è sempre una piccola postilla che cerca di giustificare o di evadere lo sbaglio. Il risultato è che in Italia, appunto, sembrerebbe che nessuno sbagli.
La rabbia di Valandro è solo l’ultimo esempio di questa propensione all’allontanamento dell’errore dalla propria responsabilità. Da un certo punto di vista è anche traballante e incerto come esempio, non si regge in piedi da solo: la rabbia non può essere usata come scusante, altrimenti chiunque fosse arrabbiato potrebbe essere giustificato a prendere in mano una pistola e sparare in testa a qualcuno. È vero, ho ucciso tizio, ma i miei gesti erano dettati da un momento di rabbia. Voi lo scagionereste una persona che dice una cosa del genere? Per quale motivo allora dovrei discolpare Valandro che si scusa dicendo che le sue parole erano solo il frutto di un momento di rabbia?
Le parole. Le parole. Le parole sono importanti! Avrei apprezzato maggiormente una dichiarazione più semplice, che non ammettesse difese, magari anche più corta: mi scuso, ho sbagliato. Punto. Fine. È un errore, uno solo. È grosso, grande, razzista e pure disgustoso. È già abbastanza ingombrante da solo, per quale motivo lo vuoi accompagnare con un altro errore, ovvero il non ammetterlo? Questo non è un caso isolato, è solo l’ultimo di una lunga serie. È sempre così, lo è da tempo ormai, e gli errori, gli sbagli, invece di essere per così dire smaltiti si accumulano. Si alza il tappeto e li si nasconde lì sotto.
Il capostipite di questo atteggiamento è senza dubbio l’onnipresente Silvio Berlusconi. In vita sua pare non avere mai sbagliato neppure a soffiarsi il naso e nel corso degli anni ha affinato uno stile tutto suo che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Quando era ancora Presidente del Consiglio B. si rese protagonista di una serie di sfortunate dichiarazioni, sia a livello nazionale che internazionale, che in tutta onestà erano difficilmente digeribili da chiunque. Ognuna di queste dichiarazioni ha scatenato, nel suo campo di interessi, un polverone di malumori nonché di crisi diplomatiche assai ardue da gestire. L’autore, con un triplo salto carpiato all’indietro con annessa supercazzola alla toscana, si è fatto beffa di chiunque lo accusasse di inesistente diplomazia dicendo che le sue erano semplici battute, delle innocenti barzellette.
Non posso dire più niente, si lamentava, ora vengo attaccato anche quando faccio dell’ironia. Il problema è che se si prendessero queste parole per vere, cioè che quelle di B. erano solo delle battute, si rischierebbe di entrare in uno scenario assai pericoloso e dal quale sarebbe difficile uscire. Qualsiasi cosa, una volta detta, potrebbe essere dichiarata battuta, anche la più terribile. Dichiari guerra e poi, dopo avere visto cosa ne segue, ti appresti a dire: hey, stavo scherzando. In un mondo dove tutto può essere una battuta, così come ogni giustificazione viene accettata come metodo per sfuggire dall’ammissione di colpa, non esisterebbero errori, verrebbero cancellati ancor prima di chiamarli tali. Sarebbe un mondo idilliaco, un mondo perfetto. Almeno sembrerebbe così. Ma in un mondo del genere, dove nessuno sbaglia, come si farebbe a giudicare una persona? Se tutti fanno le cose in modo perfetto, in egual modo, nessuno commette alcun tipo di errore, chiunque, tutti, sono perfettamente uguali. In un’azienda che fabbrica cristalleria un impiegato modello sarebbe identico a un altro impiegato che in un giorno si fa cadere dalle mani decine e decine di bicchieri di vetro. Non per colpa sua, sia chiaro. Una volta il vetro era scivoloso, un’altra volta un rumore l’ha spaventato, un’altra volta ancora c’è stato un blackout, un’altra volta…
Allo stesso modo, traslando l’esempio sulla scena politica, come puoi giudicare un politico se nessun politico commette errori? A questo punto tutti i politici sarebbero uguali e la tua scelta sarebbe ininfluente, in quanto sarebbe del tutto casuale, come estrarre un nome da una miriade di nomi tenendo gli occhi chiusi.
È questo che mi preoccupa delle “scuse” del consigliere comunale Valandro, ovvero che si è scusata cercando di giustificarsi per non ammettere la sua colpa. Ha dato la colpa a qualcun altro, o a qualcos’altro, anche se la rabbia, quella che lei accusa di essere la causa delle sue parole, è pur sempre la sua. È l’inizio di un processo che porta ad assegnare la colpa di qualsiasi cosa a un soggetto esterno, che a sua volta la scarica a un altro soggetto, il quale la gira a un altro soggetto, e così via, all’infinito, fino a quando la colpa è talmente diluita da risultare inesistente. Ma la colpa ovviamente rimane, e alla fine è nostra, perché accettiamo a prescindere qualsiasi tipo di scusa per giustificare un errore. Per esempio: perché la Lega Nord si chiama ancora così se è al nord solo dell’Italia?

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