martedì 16 settembre 2008

Di nuovo in macchina

Attraverso velocemente la strada riparandomi la testa sotto il giacchetto di jeans. Apro la portiera bagnato fradicio proprio come qualche minuto prima. E finisco di nuovo a spazzolarmi i capelli per asciugarli un po’.
Federica mi guarda un po’, mentre io faccio come se niente fosse: come se lei fossa appena passata a prendermi di fronte casa.

“C’è qualcosa che non va?”
“Beh, si. Mio fratello ha deciso di chiudermi fuori.” Ecco, l’ho detto.
Lei si corruccia un po’, si rimette a posto i capelli dietro le orecchie e guarda fisso al di là del parabrezza.
“Se vuoi puoi venire a dormire da me, se non hai nessun altro posto dove andare.” Non ci credo!

Sulle prime non accetto. Una brutta abitudine che ho è quella di non accettare mai al primo colpo le cose che mi vengono offerte. Anche se in fin dei conti sarei disposto a spolpare una persona per averle. Come ora.
È colpa di mia madre, è lei che mi ha tramandato geneticamente questa sua fissa. La gente con me deve insistere almeno un paio di volte, altrimenti non c’è verso.
Potrebbe anche essere la ricchezza più ricca su questa terra, ma se non mi supplicano di accettare per tre volte io risponderò sempre
“No, grazie.”
È più forte di me, non c’è nulla da fare. Sono fatto così.
Male.

Alla fine riesce a convincermi a rimanere a dormire da lei. Mette la prima e riparte verso casa sua.
“Però devi un po’ adattarti. – dice – Dormirai sul divano, il letto scordatelo.” Io faccio di si con la testa, non c’è problema. Sarei capace di addormentarmi anche su un vibratore pur di dormire sotto lo stesso tetto di una ragazza carina come lei.
“In più, domani mattina lavoro, quindi sveglia alle sette e mezza!”

Sette e mezza?? Ma cazzo, neppure sotto le armi!
Lei mi guarda. Io ci sono rimasto troppo male. Con i ritmi che ho preso questa estate ho bisogno di dormire almeno una decina di ore. Se vado a letto adesso fino alle dieci non se ne parla di vedermi alzato.
Mi volto verso Federica per cercare di strapparle almeno uno strimizzito permesso fino alle otto. Lei è lì che guarda dritto di fronte a se e con difficoltà trattiene una sonora risata. Allora capisco che era soltanto uno scherzo, per fortuna.
“Ma vaffanculo.” Lei scoppia a ridere e io sorrido un po’ più rilassato.

“C’eri cascato, ammettilo.” Certo che c’ero cascato, diamine. Non mi aspetterei mai che mi si prendesse per il culo fin dalla prima uscita. Dopo oggi però dovrò correggere leggermente quello che mi aspetto e quello che non mi aspetto dalle altre persone.
Soprattutto dalle ragazze carine che sembrano innocenti.

Il percorso che da casa mia ci porta fino a casa sua è piuttosto breve. Abbiamo poco tempo per parlare e in quel poco tempo riesco solo a stupirmi un poco.
Scopro che non vive più con i suoi genitori. Capisco che quando ha detto “Casa mia” intendeva davvero casa sua.
“Niente di particolare. – fa lei – Un semplice appartamento di due stanze più bagno.” Buttalo via. Io sarei disposto a fare il bidet a cani paralizzati pur di andarmene dai miei genitori.

Vengo a sapere anche che è fidanzata ormai da cinque anni, una vita ormai, ma la cosa non mi stupisce più di tanto. Me lo avesse detto appena salito in macchina forse tale notizia avrebbe rovinato un’esistenza. Sarebbe stato un macigno che mi cadeva sulla testa, spappolandomela ben bene. Ma venendo fuori ora, chiacchierando del più e del meno, ora che lei ha già assistito ad abbastanza mie figure di merda da riempire un album fotografico stile “Ricordi di una vita”, beh, non mi fa più lo stesso effetto.
“Beata te.” Mi verrebbe da dire, ma non lo dico.

Ad un tratto, lungo una strada che in cinque anni avrò fatto almeno una settantacinquina di volte il giorno, giriamo in una viuzza stretta e buia di cui non mi ero mai accorto prima. Le case attorno sono così strette, appiccicate una all’altra, da sembrare quasi un’unica, grande abitazione.
Il paesaggio però è un po’ triste. Tutto questo aggrovigliamento non è poi un bel vedere. Non so se è la serata imbruttita dal temporale, ma oltre a questa sottospecie di polpettone di case che non riesco proprio a digerire c’è un’aria grigia che non mi piace proprio per nulla.
“Vivere qui non deve essere così bello però…” Non lo dico ad alta voce. Lo tengo per me.

Poi, così senza preavviso, arriviamo in uno spiazzo, una specie di piazzetta interna che fa molto provincia veneta. Una amore di paesaggio che riuscirebbe ad alleviare la giornata anche al peggior criminale nel braccio della morte. Il tutto circondato da un numero limitato ma straordinario di villette a schiera, ognuna con il proprio giardinetto privato e il proprio garage o parcheggio privato.
“Cazzo! E te vivi in questo paradiso terrestre??” Questo, purtroppo, lo dico ad alta voce…

Guardo Federica con degli occhi che sembrano supplicare un assenso. Lei fa finta di niente, continua a guidare come se nulla fosse. Solo dopo un po’, quando forse si accorge che sono fermo con la stessa espressione impietrita da ormai quindici secondi, cosa assai strana per me, si volta leggermente verso di me e con una delicatezza che non ho mai visto prima sorride leggermente.
Non risponde alla mia domanda, ma imbocca una strada che rimane sulla sinistra della piazza e continua la corsa.
“Ok, ho capito.” Riprendo una postura da persona civilizzata e lei sorride ancora.

La casa di Federica sta alla fine della strada, là dove un’altra piazzetta, più misera della precedente, si apre su una serie di palazzine color crema. Non sono certo paragonabili alle villette viste poco prima, ma rispetto alla media nazionale non sono male.

Ci fermiamo in quello che a prima vista sembra essere il parcheggio condominiale. Federica spegne i fari, poi gira la chiave e lascia che il motore emetta un leggero borbottio prima di azzittirsi del tutto.
Mentre lei si impegna nell’estrarre il frontalino dell’autoradio io aguzzo la vista al di là del parabrezza, alla ricerca di un portone che di regola ci dovrebbe portare all’interno dell’edificio.
Federica mi vede e questa volta senza ridere mi avverte:
“L’entrata è dall’altra parte.”
“Ah, perfetto…” Alzo lo sguardo verso il cielo: la pioggia non si è ancora fermata e fuori il temporale continua ad imperversare.

Appena usciti dalla macchina è un attimo. Sembra di essere in una gara di centro metri, solo che al posto dello sparo della pistola prima di partire aspetto che Federica abbia chiuso l’auto; poi la lascio andare avanti di qualche passo per indicarmi la strada e la seguo.
È buffo vederla correre. Non perché sia buffa lei, ma perché mi accorgo di come sia curioso osservare una ragazza che corre. Prima d’ora avevo visto solo Ilaria correre sotto un temporale del genere. Stavamo uscendo da una festa di carnevale che una nostra amica aveva organizzato nel capannone dove lavoravano i suoi genitori.
Lei era vestita da strega sexy e indossava una minigonna stretta che le avvolgeva le gambe fino a poco più su di metà coscia. La falcata che tale gonna le permetteva di fare sarà stata, si o no, di un paio di centimetri al massimo. Per questo corse i cento metri scarsi che ci separavano dalla macchina con minuscoli passettini rapidi rapidi che badavano bene ad evitare le pozzanghere sull’asfalto.
Per me una ragazza che corre è quella visione lì: rapidità al cento per cento. Vedere ora Federica che sgambetta veloce ma per niente rapida tra una pozza e l’altra, esattamente come un ragazzo, ha un che di bizzarro che sconvolge alcune mie certezze.

Starle dietro non mi permette soltanto di seguire la strada giusta, ma anche, e oserei dire soprattutto, ammirare quel suo bel culetto avvolto da quei jeans stretti stretti.
Lo so, sono un maiale, ma in una notte in cui sono stato chiuso fuori di casa e sto correndo sotto la pioggia concedetemi almeno un piccolo piacere.
Sono così assorto dal suo didietro che non faccio neppure più caso a dove metto i piedi, corro e basta. Forse è anche per questo che ad un certo punto finisco letteralmente dentro una sottospecie di piscina che si era venuta a creare in un avvallamento della strada.
“Ma porca puttana!” Punizione divina o cosa?

Arriviamo al portone e mentre Federica cerca le chiavi nella borsetta ho il tempo per vedere i danni causati da quella maledettissima pozzanghera di merda. Riassumendo al massimo ho i pantaloni inzuppati interamente fino a metà stinco, più qualche schizzo che mi arriva sulla coscia e addirittura sulla maglia.
Federica trova le chiavi, sceglie quella giusta in un mazzo in cui ce ne saranno almeno una quindicina tutte colorate diversamente e mi guarda.
“Scusa, avrei dovuto avvertirti di quella pozzanghera, ogni volta che piove si forma sempre più grande, ma pensavo che te ne saresti accorto. Dove avevi la testa?” Ridacchia un po’.
“Sapessi…” Don’t worry, non l’ho detto.

Saliamo le scale fino ad arrivare ad una porta in legno chiaro, esattamente come tutte le altre nella palazzina, con al centro una targhetta d’orata con inciso il suo nome: Federica Ciucci. Fossimo stati compagni di classe presumo che l’avrei fatta morbida con le battute sul suo nome; per fortuna sua non siamo più a scuola e perciò le risparmio una serie infinita di doppi sensi fin troppo scontati.
“È la mia.” Fa lei guardandomi con un’aria piena di soddisfazione.
“Mah va…” Rispondo annuendo alla targhetta.
Lei ride.
“Dai, non prendermi per il culo.”
“No no.”
“Altrimenti dormi fuori sullo zerbino!”
“Ok.”

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Io mi chiamo esattamente Federica Ciucci!!che strano..ma come ti è venuto in mente un cognome così?

Edward S. Portman ha detto...

Credo sia stato un misto di congiunzioni astrali e ispirazioni varie... bello però :)