mercoledì 25 febbraio 2009

Il ricordo di quella Estate

La camera era piccola e disordinata, per quel poco che ricordo, solo accennata, non fosse per il letto e le lenzuola sfatte, color nocciola sopra il bianco di quella appiccicosa estate. Lui mi aprì con addosso un paio di bermuda chiari, di lino, scesi lungo le gambe fin sotto il ginocchio, lasciando intravedere dall'elastico un paio di mutande verdi, di un verde che faceva quasi male agli occhi. Per questo distolsi lo sguardo, subito, neppure qualcosa mi avesse punto, spingendomi così a guardarlo in faccia.
Aveva l'aria di chi fa finta di essersi appena svegliato, di chi fino ad allora era steso a sonnicchiare sul letto, con le palpebre serrate contro la luce immensa che passava attraverso la finestra; ma sotto gli strati di pelle che cercava di nascondere intravidi una leggera sabbia dorata, appoggiata a pennellate giusto ai bordi delle tempie. Non riuscii a non pensare al fatto che di lì a qualche anno, quando entrembi ci saremmo dimenticati l'uno dell'altro (soltanto ora mi rendo conto che solo lui e nessun altro, già allora, aveva la capacità di cancellarsi così facilmente), proprio in quel punto sarebbero comparse le sue rughe. Magari le noterà la prima volta in bagno, mentre si farà la barba, e guardandosi allo specchio si renderà conto di iniziare a crollare; anche se avvicinandosi con le dita cercherà di stirare gli occhi alla cinese, di allungare la pelle fino all'inverosimile.
Ma quel giorno, dopo aver bussato contro la sua porta, stringendo l'aria dentro il pugno destro e sussurrandomi che non sarebbe venuto ad aprire, e prengondo invece nel frattempo che lo faccesse, quella sottile brina d'oro mi sembra abbia lo stesso colore di cui si colora la felicità; e non una felicità qualsiasi, ma quella inaspettata.
Non so cosa ci trovassi in lui. Non era affatto il mio tipo. Era proprio quello che negli inverni ripetevo non essere il tipo di nessuno, se non di se stesso. Aveva la faccia troppo quadrata, i capelli quasi finti, e soprattutto l'aria strafottente e sicura, quella proprietà indigesta che in altri casi non riesco a sopportare. Ma quando giù, ai bordi della piscina, dentro l'acqua, sotto il sole straniero e caldo, non lo trovavo appresso alle sue solite ragazze, quelle tinte di ambrata lucentezza, non ebbi più avuto il coraggio di deglutire. I pori della pelle si dilatarono in sudori e pozzi e caverne con orsi scuri: tutti insieme, tutti all'istante, espandendomi di centimetri su centimetri. Andai in portineria, in preda ad un'asma che non ho mai avuto e che penso invece fosse asma anche non avendola mai vissuta. Un tizio più vecchio di me, ma non di molto, mi dette il suo numero di camera, e le indicazioni necessarie per arrivarci.
Da lui, una volta entrato, ripresi a respirare normalmente, senza i battiti affrettati e i globuli rossi scarichi. Mi sentitii di nuovo normale, ancora umano, dopo quegli scalini così ripidi che mi avevano reso un alieno instabile all'atmosfera terrestre.
Dandogli le spalle mi sedetti immediatamente ad un angolo del letto, mentre lui guardando appena fuori nel corridoio e ritirando la testa chiuse la porta. A chiave. Due mandate.
Io lo guardavo senza parlare, e la cosa mi sembrava strana, perchè la sera prima avevamo tirato la notte a chiacchierare, mescolando un suo italiano accettabile al mio deprecabile spagnolo, discutendo di tutto quanto fosse sceso in terra fino a quel momento, dal rinascimento alle larve degli insetti; dallo sbocciare di farfalle alla Sagrada Familia, e le guerre sante, i circoli arci emiliani, i pub irlandesi con la musica dal vivo, e i pub irlandesi senza musica dal vivo ma con tanta tanta birra. La sera prima era stato così naturale, limpido come l'acqua che zampilla fuori da una fonte di montagna; facemmo pure quel tanto di casino, spingendo la testata del letto contro la parete, contro le stanze e le camere accanto, quando iniziammo a baciarci, stesi sugli stessi lenzuoli sfatti e appiccicati, che il buon padre di famiglia tuo vicino alle tre e mezzo del mattino prese a bussare contro il muro. E allora ci mettemmo a ridere, l'uno contro il petto dell'altro, rotolandoci fino a cadere sul pavimento.
E' stato in quel momento che mi sono sentito così biondo, con una cascata di capelli che mi scendavano fin sopra il culo.
"Lo sai che ti ho sognato, stanotte, quando sei andato via?" Si. Esatto. Disse proprio così. Me ne Andai la sera prima perchè non volevo dormirgli abbracciato, non volevo che risvegliandosi mi vedesse, o sentisse il mio alito tremendo. Preferii tornare in camera mia, tenere le distanze, anche solo per poco, mi dissi: anche solo per poco, giusto il tempo di lavarsi i denti, pettinarsi e lavarsi via quella patina di sonno che ogni mattina mi ritrovo sulla faccia.
Ma poi non ha aspettato che io gli rispondessi. Forse avevo capito male io, oppure avevo aspettato troppo prima di parlargli, ma non era una domanda, la sua.
"Fra quando te ne vai?" Questa era una vera domanda.
Mi irrigidii all'istante. La spina dorsale si fece di pietra.
"Venerdì." Risposi.
"Tra due giorni."
"Si."
"Forse è meglio non rivedersi." Disse senza degnarmi di uno sguardo.
Volevo alzarmi, andare via. Mettere chilometri tra me e quello strano posto. Tra i giorni e le parole biascicate nei gemiti. Quando lo dicevo io, che era meglio perdersi per le strade deserte della pianura toscana, invece di farsi violentare in stupidi villaggi turistici senza senso.
Lo afferrai per l'elastico dei pantaloni, spingendolo per terra. Gli montai addosso togliendomi i vestiti, e in quel modo facemmo l'amore, sul pavimento, tesi in silenzi rattrappiti, in quello spazio ristretto e congestionato dove di solito si mettono i piedi poco prima di alzarsi.

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