mercoledì 21 ottobre 2009

Siamo malati

Siamo vicini di letto, all'ospedale militare, in uno di quegli androni infiniti che sembrano non avere mai pareti, se non quelle dietro le testate in semplice ferro battuto come sbarre di una prigione. Quando sono arrivato avevo le scarpe slacciate, entrembe, e tu già stavi male, sotto le coperte rannicchiata per non patire il freddo del movimento, il dolore alle ossa al primo singolo scricchilare sommesso di alcuni muscoli che si flettono in uno spasmo involontario durante la notte passata insonne, sempre in bilico sul precipizio, mulinando le braccia per mantenere l'equilibrio e non cadere all'indietro senza poter vedere quell'abisso infinito e vuoto che è la veglia involontaria quando invece si vorrebbe solo dormire e riposare. Mi hai guardato mentre le infermiere mi spogliavano, mi tagliavano la barba, mi lavavano i capelli, mi asciugavano tutto via il sanque rappreso delle battaglie, mi infilavano dentro un camice grigio aperto sul posteriore, mi alzavano le coperte, mi appoggiavano delicatamente sul materasso e richiudevano sotto le lenzuola, forzando il più possibile le cinghie sopra il petto sopra gli stinchi sopra le cosce sopra i polsi e gli avambracci.
"E' per evitare spiacevoli conseguenze." Dicevano.
"Potrebbe cadere se in preda a convulsioni." Dicevano.
"Sono misura di sicurezza." Dicevano.
"E' per la sua incolumità." Dicevano loro.
Tu mi guardavi fisso, con gli occhi sbarrati, senza chiudere mai le palpebre. Hai aspettato che se ne andassero, con il loro rituale cerimonioso di pettegolezzi sottovoce.
"Alle dieci e mezza del mattino passa il dottore. - Hai detto. - Per la visita." Poi ti sei voltata dall'altra parte, silenziosa. Non sembrava neppure stessi respirando. Cercavo di capire i tuoi umori in base al movimento quasi impercettibile delle spalle, in su e in giù, di pochi soli millimetri alla volta.
Quando è arrivato il medico, un uomo alto dalla barba grigia, occhiali con montatura larga, e capelli radi in testa, camice bianco su camicia celeste chiaro, un paio di pantaloni scuri eleganti, mocassini neri allacciati stretti al piede.
"Bene - ha detto avvicinandosi al mio lato destro. - vedo che il suo spirito di osservazione non si è ancora annebbiato."
"Cosa?" avrei voluto rispondere, ma le parole non mi uscivano dalla bocca. Le labbra sembravano incollate, o forse era la mandibola che proprio non si muoveva.
"Non si preoccupi, la voce va e viene durante le prime ore." Scribacchiava qualcosa su un foglio tenuto rigido da una cartelletta grigio metallizzata. La penna stilografica faceva un rumore odioso sulla carta rugosa, lasciando penetrare l'inchiostro con striduli graffianti.
"Facciamo una prova? Giusto per tranquillizzarla. Primi sintomi?"
"Ho mal di testa, la gola mi va a fuoco, il naso mi perde costantemente e mi impedisce di dormire." La mia voce uscì di nuovo come per magia, senza farci caso e senza aver fatto assolutamente nulla per rimediare alla mancanza di poco prima.
"Dolore alle articolazioni? Difficoltà ad urinare?"
"No in entrambi i casi. Provo solo un notevole fastidio quando scrive sulla cartella."
"Ok. Ipersensività uditiva." E di nuovo il rumore strascicato di mille unghie contro pareti instabili. Ho stretto le palpebre con forza, cercando di chiudere le orecchie per simpatia tramite la chiusura degli occhi, visto che non potevo portarmi le mani alla testa e crearmi una cuffia naturale contro i suoni nocivi. Quando ho riaperto gli occhi il dottore aveva già camminato fino in fondo al mio letto. Stava posando la cartella con i suoi appunti in una apposita sacca metallica appesa alle sbarre della branda.
"Aspetti!" Ho gridato muto. Vorrei sapere cosa diavolo mi sta succedendo, la diagnosi, una prognosi; un accenno di cura. Ma niente è uscito dalla mia bocca, solo un flebile stridolio d'aria senza voce. Non mi ha sentito perchè non c'era niente da sentire. Ha camminato placido fin verso il tuo letto, ha afferrato la cartella dal contenitore ai tuoi piedi. Tu non gli hai prestato la minima attenzione, non lo hai guardato neppure: sei rimasta rannicchiata su un lato senza alzare la testa ne muovere un dito. Il dottore ha guardato un attimo la tua cartella, graffiato veloce con la penna sulla carta, e poi è passato oltre dopo averla messa a posto.
Nessuna parola a te. Nessuna parola tua per lui.
Ho allungato la testa verso il tuo letto, il più possibile per quanto legato al materasso. Ho incrociato le dita affinchè la voce funzionasse se non del tutto abbastanza.
"Tutto ok?"

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