martedì 26 gennaio 2010

Quando sono stato appeso come carne

E' stato come i ganci da macellaio, a cui appendono carni o brandelli di parti già tagliate. Io ero lì, attaccato per un braccio, con l'uncino acuminato passato attraverso la pelle, scalzando muscoli e lascerando nervi; oppure per la coscia, qualsiasi posto dove il ferro lucido e sanguinolento potesse trovare spazio e lavorare di gravità. Ho sentito come la pelle tendersi e allontanarsi il più possibile dalle ossa, da quella membrana indistinta o da me non conosciuta che tiene insieme gli organi e incollata la cute allo scheletro tutto, che le impedisce di volare via al primo colpo di vento; ho sentito la pelle tendersi sempre di più, schiarendo il rosa nel più pallido dei bianchi nei punti di maggiore tensione, e più questa si allontanava dalla sua base, da me, più il sibilo dentro la testa di faceva di strappo, uno scricchiolio lento di fibre sfilacciate, allungate a dismisura. Ma non mai, proprio più, arrivava lo stacco definitivo, quello che mi permetteva di slegarmi tutto e appendermi ad asciugare: era il continuo, perseverante, allungamento all'infinito: da qui all'eternità.
Erano i ganci, questi ganci da macellaio. Lascia perdere la mia incapacità descrittiva, guarda la punta, assaggiane il luccichio acuminato. Lì è come se ci fosse stata la mia carne.

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