mercoledì 16 aprile 2008

L'imperfezione è il nostro paradiso


Mi alzo per guardare fuori dalla finestra. Al di là dei tetti delle case di fronte vedo gli edifici bianchi e color crema raccolti sulla collina di Montmartre, tra alberi e giardini. Abbasso gli occhi sull’avenue Trudaine e vedo una ragazza, cappotto blu e cappello rosso, che corre con un cane al guinzaglio. Adoro tutto questo, questa vita allegra e straniera.

May mi porta il tè e il modo in cui fluttua, in cui sembra sfiorare le onde, mi fa venire in mente una sirena. Per un attimo mi chiedo che effetto fa essere un’artista. Come fa una donna a fare una sceta del genere? O è qualcosa che ti arriva come un dono dal cielo?

L’amore giunge all’improvviso, come la malattia.

Ma se accade qualcosa a qualcuno e il suo corpo diventa un guscio da devastare e da consumare, i medici non possono farci niente, e nemmeno l’amore.

Ovviamente il matrimonio non è la soluzione a tutti mali della vita. Se sei sfortunato, può portartene in quantità: le persone costrette a stare insieme possono diventare molto infelici.

Come si fa a portare avanti questa fatica di vivere? Ora questa domanda me la pongo spesso. Quando si comincia a vedere incombere la propria morte, la vita appare diversa, terribilmente netta e chiara.

L’alba si avvicina e il soffitto si tinge di azzurro cupo. Naturalmente sapevo, anche allora, che il matrimonio era qualcosa di più reale, più difficile di un pomeriggio romantico.

E quando ora la gente mi guarda, che cosa vede? Non possono sapere di quel lago in Pennsylvania, o di come un giovanotto se ne stava disteso sulla schiena e mi attirava a sé dopo aver letto per un’ora, mentre le nubi correvano verso sud.

“Quando saremmo tornati in America avrebbe dovuto prendere lezioni di disegno con me. Me l’aveva promesso. Volevamo comprare un pony.” A ogni frase colpisce il tronco, io cerci di afferrarle il braccio e di tenerlo fermo, ma lei mi spinge via. “Ora è morto e io lo odio. Non aveva il diritto di morire.”

Conosco altri desideri di May, quelli che non può dire, qualcosa su come l’amore potrebbe ancora giungere a lei in forma sorprendente, nel lampo di un’ala che fende l’aria, e il desiderio che le persone che ama (sua sorella, per esempio, e in modo diverso il terribile Degas) riescano a mantenere la rotta.

Nello studio di May l’aria diventa sempre più pesante. Immagino di aprire la bocca e di addentarla come se fosse un pezzo di pane.

Fuori dalla finestra, in alto, un gregge di nuvole bianche ha cominciato a dividersi in frammenti piumati.

Posso passare giornate intere in questo modo, distesa a letto, avvolta nel piumino che adoro quando sto bene e che ora mi sembra ruvido e sgradevole, assolutamente imperfetto, proprio come il mondo in ogni suo dettaglio.

Quando si è malati si ha un sacco di tempo per pensare. Troppo. Tutta la vita si accosta al capezzale, in visita, che sia benvenuta o meno. In alcuni momenti questa visitatrice sembra una figura mostruosa e deforme, accovacciata sul mio petto: si rifiuta di andarsene e mi presenta, un’immagine dopo l’altra, tutti i ricordi.

La malattia ha questo di meraviglioso. Se scompare, anche soltanto per qualche giorno, e si può fare nuovamente ingresso nel mondo, tutto brilla di purezza e intensità.

In giardino, al tramonto, dietro la nostra casa di West Chester, il suo visto che scintillava nel buio. “Lyddy!” Ho sentito qualcuno che mi chiamava da casa. L’ho guardato e l’aria tra di noi mi è sembrata diventare dolce e torpida. “Lyddy!”

L’aria dolce e torpida, tra noi si tendevano fili sottili che si ingarbugliavano e ci attiravano l’uno verso l’altra.

Una sera, a West Chester, sgattailando in giardino dopo una giornata passata a nuotare, ci siamo abbracciati per la prima volta, con violenza e avidità, nell’umida arioa estiva, con l’erba ricca e fragrante, il latrato di Nora, il nostro cane, che proveniva dal prato di fronte e le voci dei bambini che ci chiamavano: “Lyddy! Thomas!”


“Ti senti meglio?” Chiede.
“Oui, pour le moment.”
Lui medita sulle mie parole.
“Un momento può avere un’importanza enorme.”

Tutti noi abbiamo bisogno di qualcosa a cui tendere, qualcosa da cercare scavando, se necessario, da raggiungere strisciando a pancia in giù, nel fango e tra le pietre, per poterne toccare e comprendere anche una minima parte.

Ricordati di me, vorrei dire alla mia giovane nipote. Non lasciare che mi dimentichino. Non è questo che vorrei dire anche a May e agli altri? E anche a Edgar, che avevo sempre creduto crudele e la cui gentilezza scintilla, sotto una certa luce, come rapidi colpi di pennello intinto nell’oro, sulle sue spalle e sul suo viso, lasciandoti spiazzato.

Harriet Scott Chessman

Nessun commento: