lunedì 5 ottobre 2009

Perle Wallaciane

Un buon momento per fare lo scrittore

Personalmente, credo che questo sia veramente un buon momento per un giovane che voglia cominciare a scrivere narrativa. Ho degli amici che non sono d’accordo. Al giorno d’oggi la narrativa di qualità e la poesia sono emarginate. È un errore in cui cadono parecchi dei miei amici, questa vecchia idea secondo cui «Il pubblico è stupido. Il pubblico vuole andare in profondità solo fino a un certo punto. Poveri noi, siamo emarginati perché la tv, la grande ipnotizzatrice… bla bla bla». Ci si può mettere seduti in un cantuccio e piangersi addosso quanto si vuole. Ma è una stronzata. Se una forma d’arte viene emarginata è perché non parla davvero alla gente. E un possibile motivo è che la gente a cui si rivolge sia diventata troppo stupida per apprezzarla. Ma a me sembra una spiegazione troppo semplice.

Se uno scrittore si rassegna all’idea che il pubblico sia troppo stupido, ad aspettarlo ci sono due trappole. Una è la trappola dell’avanguardismo: si fa l’idea che sta scrivendo per altri scrittori, perciò non si preoccupa di rendersi accessibile o affrontare questioni di ampia rilevanza. Si preoccupa di far sì che ciò che scrive sia strutturalmente e tecnicamente all’avanguardia: involuto nei punti giusti, ricco di appropriati riferimenti intertestuali… L’opera deve sprizzare intelligenza. Ma all’autore non importa nulla se sta comunicando o meno con un lettore a cui freghi qualcosa di quella stretta allo stomaco che è poi il motivo principale per cui leggiamo. Sul fronte opposto ci sono opere volgari, ciniche, commerciali realizzate secondo formule prestabilite — essenzialmente, il corrispondente letterario della tv — che manipolano il lettore, che presentano materiale grottescamente semplificato con uno stile avvincente perché infantile.

La cosa strana è che questi due fronti sono in lotta fra loro ma hanno un’origine comune, che è il disprezzo per il lettore: l’idea che l’attuale emarginazione della letteratura sia colpa del lettore. Il progetto che vale la pena di portare avanti è invece quello di scrivere qualcosa che abbia in parte la ricchezza, la complessità, la difficoltà emotiva e intellettuale dell’avanguardia, qualcosa che spinga il lettore ad affrontare la realtà invece che a ignorarla, ma che nel fare questo provochi anche piacere nella lettura. Il lettore deve sentire che qualcuno sta parlando con lui, non assumendo una serie di pose.

In parte, tutto questo ha a che fare col fatto che viviamo in un’epoca in cui abbiamo a disposizione una quantità enorme di puro intrattenimento, e bisogna capire come può la letteratura ricavarsi un suo spazio in un’epoca di questo tipo. Si può provare ad affrontare il problema di cosa sia a rendere magica la letteratura in maniera diversa dalle altre forme di arte e spettacolo. E a capire in che modo la narrativa possa ancora affascinare un lettore la cui sensibilità è stata in massima parte formata dalla cultura pop, senza diventare un’ulteriore palata di merda fra gli ingranaggi della cultura pop. È qualcosa di incredibilmente difficile, sconcertante e spaventoso, ma è un bel compito. C’è una quantità enorme di intrattenimento di massa ben realizzato e ben confezionato: credo che nessun’altra generazione prima di noi si sia trovata a fronteggiare una cosa del genere. Essere uno scrittore oggi significa questo. Credo che sia il momento migliore per essere al mondo e forse il miglior momento possibile per fare lo scrittore. Certo, dubito che sia il più facile.

La magia della letteratura

Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro. Ma questo è solo un primo livello, perché l’idea dell’intimità mentale o emotiva con un personaggio è un’illusione, un meccanismo creato dallo scrittore attraverso la sua arte. C’è anche un altro livello su cui un testo letterario diventa una conversazione. Fra il lettore e lo scrittore si instaura un rapporto che è molto strano, complicato e difficile da descrivere. Un ottimo brano di letteratura non è detto che mi catturi completamente e mi faccia dimenticare che sono seduto in poltrona. C’è della narrativa commerciale che è perfettamente in grado di riuscirci; una trama avvincente è perfettamente in grado di riuscirci: ma non mi fa sentire meno solo.

Invece c’è una specie di: «A-ha! Qualcuno almeno per un attimo la pensa come me, o vede una cosa nel modo in cui la vedo io». Non capita sempre. Sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. E non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale. La letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi profondamente e significativamente in comunicazione con un’altra coscienza, in una maniera del tutto diversa da quanto riescano a fare altre forme d’arte.

Stelle polari

È difficile parlare degli scrittori che riescono a farmi questo effetto. Non intendo dire che io sia bravo quanto loro. Sono come stelle polari che mi indicano la rotta.

Storicamente, ecco le opere letterarie che mi hanno dato quella sorta di squillo da jackpot di slot-machine: l’orazione funebre di Socrate, la poesia di John Donne, la poesia di Richard Crashaw, Shakespeare ogni tanto, ma non così spesso, le opere più brevi di Keats, Schopenhauer, le Meditazioni sulla filosofia prima e il Discorso sul metodo di Cartesio, i Prolegomena di Kant, anche se le traduzioni in inglese sono tutte pessime, le Varietà di esperienze religiose di William James, il Tractatus di Wittgenstein, Ritratto dell’artista da giovane di Joyce, Hemingway — specialmente la parte finale di In Our Time, che ti fa veramente fare uuuuh — Flannery O’Connor, Cormac McCarthy, Don DeLillo, A.S. Byatt, Cynthia Ozick — i racconti, specialmente «Levitations» — Pynchon più o meno il venticinque per cento del tempo, Donald Barthelme — in particolare un racconto chiamato «The Balloon», che è stato il primo racconto a farmi venire voglia di diventare uno scrittore — Tobias Wolff, le cose migliori di Raymond Carver, quelle più famose, Steinbeck quando non rulla troppo i tamburi, il trentacinque per cento di Stephen Crane, Moby Dick, Il grande Gatsby.

E poi ovviamente c’è la poesia. Probabilmente più di tutti Philip Larkin, e anche Louise Glück, Auden.

Fra i miei colleghi, c’è tutto quel gruppo di grossi maschi bianchi; cinque o sei di noi sotto la quarantina (l’intervista da cui è tratta questa affermazione risale al marzo 1996), bianchi, alti un metro e ottanta o più e con gli occhiali. Richard Powers, William Vollman, Jonathan Franzen, Donald Antrim, Jeffrey Eugenides; Rick Moody. Lo scrittore con cui sono più fissato al momento è George Saunders, che ha appena pubblicato CivilWarLand in Bad Decline, un libro che merita grandissima attenzione. A.M. Homes: le sue cose più lunghe magari non sono perfette, ma ogni due tre pagine c’è qualcosa che ti colpisce allo stomaco e ti fa piegare in due. Kathryn Harrison, Mary Karr, che è famosa per The Liar Club ma scrive anche poesia, e forse è la migliore poetessa americana di oggi sotto i cinquant’anni. Cris Mazza, Rikki Ducornet, Carole Maso.

Insegnare

Non mi piace insegnare scrittura creativa. Ci sono due settimane di roba che puoi insegnare a uno che non ha ancora scritto cinquanta racconti e sta ancora imparando. Poi diventa solo questione di gestire le diverse opinioni soggettive degli studenti sul problema di come dire la verità vs. obliterare il proprio ego.

Invece mi piace insegnare letteratura inglese alle matricole. Alla Illinois University di Bloomington (dove DFW insegnava all’epoca dell’intervista) arrivano un sacco di ragazzi di campagna che non hanno avuto un’istruzione particolarmente buona e a cui non piace leggere. Sono cresciuti pensando che la letteratura sia qualcosa di arido, insignificante, poco divertente, tipo l’olio di fegato di merluzzo. Io invece gli metto davanti roba un po’ più attuale: la seconda settimana facciamo sempre un racconto di A.M. Homes che si chiama «Una vera bambola», tratto da La sicurezza degli oggetti. Parla di un ragazzino che ha una storia d’amore con una Barbie. È una bella trovata, in superficie, ma è anche molto distorto, malato, avvincente e veramente toccante per dei diciottenni che cinque o sei anni fa giocavano con le bambole o facevano i sadici con le sorelle. Quando vedo quei ragazzi scoprire che leggere narrativa di qualità può essere difficile, ma a volte ripaga lo sforzo, e che quel tipo di lettura riesce a darti qualcosa che non può darti nient’altro, quando li vedo rendersi conto di questo fatto, è una cosa fichissima.

I miei lettori

Immagino che siano più o meno gente come me, suppergiù fra i venti e i quaranta, con quel tanto di esperienza o di istruzione che basta per rendersi conto che la fatica che la buona letteratura richiede a volte viene ripagata. Gente che è cresciuta con la cultura commerciale americana e ne è coinvolta, pervasa e affascinata, ma ha ancora fame di qualcosa che l’arte commerciale non può dare. (…) Questa, credo, è la gente per cui scrivono un po’ tutti gli autori della mia età che ammiro: William Vollman, A.M. Homes, Jonathan Franzen, Richard Powers, e anche gente come McInerney e Leavitt. Ma, lo ripeto, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a grandi cambiamenti nel modo in cui gli scrittori riescono a far presa sui lettori, in ciò che i lettori devono aspettarsi da ogni forma di arte.

Tv, piacere, dolore

È troppo facile starsene semplicemente lì a torcersi le mani dicendo che la tv ha rovinato i lettori. Perché la cultura televisiva americana non è nata dal nulla. Quello che la tv è estremamente brava a fare – e rendiamocene conto, «non fa altro che questo» – è riconoscere cosa vogliono grandi masse di persone, e fornirglielo. E dato che nella cultura americana, o comunque dell’occidente industrializzato, c’è sempre stato un caratteristico e fortissimo disgusto per la frustrazione e la sofferenza, la tv eviterà queste cose come la peste in favore di qualcosa che sia facile e anestetico.

In moltissime altre culture, se uno soffre, se ha un sintomo che lo fa soffrire, questo viene sostanzialmente interpretato come qualcosa di sano e naturale, un segnale del fatto che il sistema nervoso sa che c’è qualcosa che non va. Per queste culture, liberarsi del dolore senza affrontarne la causa profonda sarebbe come spegnere il campanello d’allarme mentre l’incendio divampa ancora. Ma se soltanto guardiamo la miriade di modi in cui in questo Paese ci sforziamo all’impazzata di alleviare quelli che sono semplici sintomi – dalle pasticche contro il mal di testa a effetto ultrarapido alla popolarità dei musical spensierati durante la Depressione – si vede una tendenza quasi compulsiva a identificare il dolore in sé con il problema. E così il piacere diventa un valore, un fine teleologico a se stesso. Se guardiamo l’utilitarismo – una teoria etica spiccatamente anglosassone – vediamo un’intera teleologia basata sull’idea che la migliore vita umana possibile è quella che raggiunge il tasso più alto di piacere rispetto al dolore. Lo so che il mio può sembrare un discorso bigotto. Ma voglio solo dire che dare la colpa alla tv è un atteggiamento miope. La tv è solo un sintomo come tanti altri. Non è stata la tv a inventare il nostro infantilismo estetico, così come non è stato il Progetto Manhattan a inventare l’aggressione. Le armi nucleari e la tv hanno semplicemente intensificato le conseguenze di certe nostre tendenze, hanno alzato la posta in gioco.

Una letteratura morale?

Se la condizione della nostra civiltà contemporanea fa disperatamente schifo, è insulsa, materialistica, emotivamente ritardata, sadomasochistica e stupida, allora qualunque scrittore può sfangarla creando alla bell’e meglio storie piene di personaggi stupidi, superficiali, emotivamente ritardati, e non ci vuole molto, perché quel genere di personaggi non richiede nessuno sviluppo. O descrizioni che siano semplici liste di prodotti di marca. Romanzi in cui gente stupida si dice cose insignificanti. Se quello che ha sempre contraddistinto la cattiva scrittura – la piattezza dei personaggi; un mondo narrativo fatto di cliché e non riconoscibile come umano – è anche ciò che contraddistingue il mondo di oggi, allora un brutto romanzo diventa una geniale mimesi di un brutto mondo. Se i lettori credono semplicemente che il mondo sia stupido, superficiale e cattivo, allora uno come Bret Easton Ellis può scrivere un romanzo cattivo; stupido e superficiale che diventa un ironico e tagliente ritratto della bruttura del mondo che ci circonda. Siamo d’accordo un po’ tutti che questi sono tempi duri, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di opere letterarie che non facciano altro che drammatizzare quanto sia tutto buio e stupido? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il mondo sia per mettere in luce le possibilità di abitarlo in maniera viva e umana.

Non parlo di soluzioni nel campo della politica convenzionale o l’attivismo sociale. Il campo della letteratura non si occupa di questo. La letteratura si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano. Se uno parte, come partiamo quasi tutti, dalla premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono decisamente difficile essere veri esseri umani, allora forse metà del compito della letteratura è spiegare da dove nasce questa difficoltà. Ma l’altra metà è drammatizzare il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani. O possiamo esserlo. Questo non significa che il compito della letteratura sia edificare o insegnare, fare di noi tanti piccoli bravi cristiani o repubblicani. Non sto cercando di seguire le orme di Tolstoj o di John Gardner. Penso solo che la letteratura che non esplori quello che significa essere umani oggi, non è arte. Abbiamo tanta narrativa di qualità che ripete semplicemente all’infinito il fatto che stiamo perdendo sempre più la nostra umanità, che presenta personaggi senz’anima e senza amore, personaggi la cui descrizione si può esaurire nell’elenco delle marche di abbigliamento che indossano, e noi leggiamo questi libri e diciamo «Wow, che ritratto tagliente ed efficace del materialismo contemporaneo!» Ma che la cultura americana sia materialistica lo sappiamo già.È una diagnosi che si può fare in due righe. Non è stimolante. Quello che è stimolante e ha una vera consistenza artistica è, dando per assodata l’idea che il presente sia grottescamente materialistico, vedere come mai noi esseri umani abbiamo ancora la capacità di provare gioia, carità, sentimenti di autentico legame, per cose che non hanno un prezzo? E queste capacità si possono far crescere? Se sì, come, e se no, perché?

Rendere strano ciò che è familiare

Il mondo postmoderno, in quanto mondo postindustriale e governato dai media, ha invertito una delle grandi funzioni storiche della letteratura, quella di fornire dati su culture e persone lontane. È stata la prima vera generalizzazione delle esperienze umane che i romanzi hanno tentato di compiere. Se cento anni fa uno abitava in un paesino in culo al mondo, nel cuore dell’Iowa, e non aveva idea di come si vivesse in India, il buon vecchio Kipling glielo andava a spiegare. E ovviamente tutti i critici post-strutturalisti adesso si prendono la rivincita sui pregiudizi colonialisti e fallocratici insiti nell’idea che quegli scrittori stessero presentando delle creature aliene invece che rappresentarle: indigeni balbettanti, concubine focose, il fardello dell’uomo bianco e via dicendo. Ebbene, per il lettore di oggi questa funzione di presentazione della letteratura si è rovesciata, dato che l’intero villaggio globale oggi viene presentato come familiare, e immediatamente accessibile per via elettronica: satelliti, microonde, gli intrepidi antropologi dei documentari della PBS, i coristi zulù di Paul Simon. È quasi come se avessimo bisogno degli scrittori per ripristinare l’ineluttabile.

Per la nostra generazione, il mondo intero sembra presentarsi come familiare, ma dato che questa è ovviamente un’illusione per quel che riguarda tutti gli aspetti più importanti degli individui, forse il compito di ogni forma di letteratura realistica è l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma rendere di nuovo strano ciò che è familiare. Mi sembra che sia importante trovare dei modi per ricordare a noi stessi che gran parte di questa sensazione di familiarità è illusoria e mediata.

L’ironia postmoderna

Se ho un vero nemico, un patriarca contro cui effettuare il mio parricidio, sono probabilmente Barth e Coover e Burroughs, e perfino Nabokov e Pynchon. Perché, anche se la loro consapevole letterarietà, la loro ironia e la loro anarchia erano al servizio di scopi validissimi ed erano indispensabili per quell’epoca, il loro assorbimento estetico da parte della cultura consumistica americana ha avuto conseguenze terrificanti per gli scrittori e per chiunque. Il mio saggio E unibus pluram parla proprio di quanto sia diventata velenosa l’ironia postmoderna.

L’ironia e il cinismo erano esattamente la reazione che ci voleva all’ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. È questo che rende i primi scrittori postmoderni dei grandissimi artisti. Il grosso merito dell’ironia è che spacca le cose a metà e va a guardarle dall’alto in basso, così da rivelarne i difetti, le ipocrisie e i doppioni. Il sarcasmo e l’ironia sono ottimi modi per strappare le maschere e mostrare la realtà sgradevole che c’è sotto. Il problema è che, una volta che le regole dell’arte sono state smantellate, e una volta che le sgradevoli realtà diagnosticate dall’ironia sono state rivelate in pieno, «a quel punto» che facciamo? (…) A quanto pare, vogliamo solo continuare a mettere in ridicolo la realtà. L’ironia e il cinismo postmoderni diventano un fine a se stessi, una misura della sofisticatezza e della spregiudicatezza letteraria degli scrittori. Pochi artisti osano parlare dei modi in cui si possa tentare di aggiustare quello che non va, perché sembreranno sentimentali e ingenui agli smaliziati ironisti. L’ironia si è trasformata da un mezzo di liberazione in un mezzo di schiavitù.

Pronti a morire per toccare il cuore del lettore

Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo. Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo. Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando. Che ama e basta, forse.

Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive. Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata. Magari questa è una cosa che non fa molto fico dire, non lo so. Ma mi sembra una delle cose in cui riescono gli scrittori davvero grandi – da Carver a Cechov a Flannery O’Connor al Tolstoj della Morte di Ivan Il’ic al Pynchon dell’Arcobaleno della gravità – sia dare qualcosa al lettore. Quando il lettore si allontana dalla vera opera d’arte pesa di più di quando ci si è avvicinato. È più ricco. Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo vantaggio. Quello che è velenoso e deleterio, nell’ambiente culturale di oggi, è che rende tutto questo tanto spaventoso da dissuaderci a farlo. Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore.

Le perle sono tratte da:

Larry McCaffery, An Interview with David Foster Wallace, Review of Contemporary Fiction, estate 1993;
Laura Miller, The SALON Interview — David Foster Wallace, 8 marzo 1996.

Trovato qua: minima & moralia

2 commenti:

metrovampe ha detto...

Interessantissime. Bene e grazie che ti sei dato da fare per farle stare a galla!

Edward S. Portman ha detto...

Grazie a te.
Io le ho riproposte, è chi le legge (e le apprezza) che le fa restare a galla.