lunedì 15 novembre 2010

Cercasi batterista, chiamare Alice

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Uno spillo di dolore la trafisse dalla base del collo passando attraverso tendine, muscolo, osso, attraverso il cervello, soprattutto, e le perforò il dietro degli occhi.

Ovunque fossi sentivi questa fame di un po' di semplice conversazione.

Cinque, sei, sette re rimase steso sotto il tavolino nella cucina della canonica. Fu allora che capì come la rigidità del concetto di tempo attecchisse solo sullo strato più esterno del pensiero civilizzato.

La perdita del padre era la rovina per un bambino. E da quel giorno ebbe l'impressione che fossero scomparsi tutti ipadri del vicinato. O meglio, di padri ce n'erano, erano i papà che non si vedevano più.

La dipendenza era il controspionaggio della carne, il corpo che faceva il doppio gioco.

La madre di Alice stava dormendo.
Alice e Ruthie la guardavano e basta. Non aveva abrasioni né graffi né suture. Niente nel suo sonno che meritasse preoccupazione. Era solo l'ospedale di per sé a essere preoccupante. Era il posto in sé che ti condannava alla malattia.

La fabbrica produceva caffè decaffeinato solubile, e le sue trasfomazioni chimiche erano accompagnate da un odore di gomma bruciata o di tetti creosotizzati. La puzza era penetrata nel terreno e negli alberi lì vicino, dentro i pori degli abitanti.

Innamorata non era la parola esatta, però ci andava vicino.

Uscì sul gradino davanti casa. Gli uccelli e i fiori avevano la banalità dei biglietti d'auguri.

"Sto sbagliando qualcosa", disse Dennis.
"Quello che sbagli", spiegò Alice, "è pensarci, pensare che stai sbagliando qualcosa. Non darti per vinto, questo ti consiglio. Non li sopporta nessuno quelli che si danno per vinti."

Ci si aspettava che le feste fossero divertenti, ma un sacco di volte non lo erano affatto. La gente si confondeva sempre.

La cosa buffa dei canali porno a pagamento era che la parte veramente migliore erano le pubblicità, tutte quelle pubblicità che dicevano che il programma ricominciava subito. Così come la parte migliore delle feste erano i preparativi.

Una sera aveva convinto Scarlett ad andare a letto con lui. Scarlett della band. Erano rimasti fuori fino a tardi dopo aver suonato in qualche locale. Un ottimo esempio di pessimo sesso occasionale. Il punto era stato l'opera di convincimento. Come faceva certa gente ad abboccare a tutte quelle cazzate, se non voleva abboccare fin dal principio? O forse poteva capitare, come con Scarlett, che un giorno ci fosse la giusta congiunzione astrale o qualcosa del genere, e allora succedeva e basta. Quella sera Scarlett si era semplicemente lasciata convincere. Stava passando un brutto periodo ed era disposta a fare cose. L.G. sapeva che la gente doveva essere in un brutto periodo se si ritrovava a casa sua, e ci si era abituato. Il fatto era che prima o poi ci si ritrovavano quasi tutti.
E si era unita a loro anche una ragazza. Una ragazzina. Scarlett non aveva cercato di dissuaderlo, e alla ragazza l'idea piaceva. Al momento nessuno dei tre aveva di meglio da fare.
Sul tetto, mentre aspettava l'arrivo dei fusti, mentre aspettava la festa, L.G. ricordò che quella volta non riusciva a concentrarsi. Era un problema numerico. Le due donne lo baciavano insieme, ciascuna su una guancia diversa, oppure lui ne baciava una, e l'altra stava facendo lo stesso. Non sapeva da che parte girarsi. Oppure teneva Scarlett con le braccia e l'altra con le gambe, oppure una delle due era in questa identica posizione. Chi lavorava nella finanza poteva abituarsi a calcoli del genere, forse, ma L.G. no.
Il problema non era trovarsi davanti due ragazza che facevano sesso, per come la vedeva L.G.; il problema era ritrovarsi finalmente a fare una cosa che l'aveva tanto stuzzicato e rendersi conto che non lo stuzzicava più. Le fantasie sono come gli ideali: esistono solo per farti perdere l'orientamento. Prova a prenderele e quelle si spostano. Ancora più in là, di solito.

E Ruthie andò a colpo sicuro, accorgendosi soltanto dopo di come Lane si stringeva addosso l'asciugamano, di come persino in quel momento si vergognava del suo corpo: le sue concavità, i suoi spigoli.

Lane andò alla finestra. Fuori dalla stanza di J.D. il sole cominciava a tramontare e aveva i colori di un incendio doloso.

Qual era il ragionamento che finalmente permetteva ai giovani di mollare, una volta per tutte, la giovinezza? Sembrava che quella generazione non volesse andarsene mai di casa. Crescevano fino a un certo punto e poi passavano il decennio successivo, fino al collasso, a cercare di riassaporare il senso di novità dell'adolescenza, quella pulsazione della giovinezza che sembra, nel suo pieno fiorire, permanente.

Tutto questo perché la cosa che faceva paura era passare lì dentro il tempo che ci dovevi passare, tenere la bocca chiusa e obbedire a quello che ti dicevano loro. La cosa che faceva paura era guarire, cambiare. Perché allora ti rispedivano nel mondo. A provarci di nuovo.

Quando salirono sull'autobus Dennis passò un braccio attorno alle spalle di Scarlett, e lei glielo lasciò fare e fu una cosa carina. Scesero a qualche isolato dal negozio del disinfestatore, davanti al Pinnacle. Poi si salutarono. Le vittorie più grandi stavano nelle cose più piccole.

Era pomeriggio. Arancione, rosso e ocra si riflettevano sugli edifici grigi e polverosi sull'altra sponda del fiume. I riflessi danzavano nel punto in cui acqua dolce e acqua salata confluivano increspandosi.

Più cose dicevano, più cose c'erano da dire, ma non una che andasse a segno, non una che li facesse sentire compresi, o che li convincesse del fatto che la vicinanza umana poteva placare l'intensità della solitudine. Le parole che si scambiavano erano come l'asfalto sotto le ruote dell'autobus. Erano come i paesaggi che si percorrono in lungo e in largo mille volte ma restano sconosciuti, se non per i cartelloni. Comunque ne valeva la pena.

Rick Moody

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