giovedì 25 novembre 2010

Testamento

lui morì un giorno di ottobre. non c'era nebbia, ma l'aria era lo stesso grigia. in cielo si poteva guardare il sole senza infiammarsi gli occhi, coperto com'era da quelle nuvole leggere e quasi trasparenti che sembravano galleggiare per aria. erano i tempi dei primi temporali, interminabili quasi quanto la loro violenza. l'inverno cercava di farsi strada con forza. le foglie gialle cominciavano a cadere dagli alberi, andando a piastrellare morte i marciapiedi e i bordi dei viali.
quando successe sua madre stava comprando i giornali. un quotidiano e due riviste di gossip. non si accorse di quanta poca differenza potesse esserci tra loro. diede i soldi, prese il resto, e afferrò pagine su culi tetti e scandali di varia natura.
suo padre stava parlando con alcuni suoi amici degli errori arbitrali commessi durante l'ultima giornata di campionato. inveiva contro il tizio o il caio che non la pensavano come lui, proprio come succedeva ormai da quasi cinque anni, da quando la sua squadra del cuore era caduta in rovina e la sua unica soddisfazione non era altro che sputare merda sulle altre squadre mentre beveva il cappuccino del lunedì mattina.
lei invece stava ancora dormendo. si avvolgeva tra le lenzuola, stringendo il cuscino sotto la testa. sulle labbra un sorriso involontario, che non poteva controllare. sotto le coperte era caldo, sognava di essere su una spiaggia, di fronte a un mare limpido, cristallino. fuori al contrario era freddo, l'asfalto era bagnato dalla pioggia della notte, il guardrail piegato, le lamiere erano contorte.
nei film ambientati durante la seconda guerra mondiale, quelli ai quali lei non piangeva mai perché le sembravano ogni volta troppo melensi, c'erano sempre due militari che entravano nell'inquadratura con una jeep, parcheggiavano davanti a una villetta e poi scendevano per andare a bussare alla porta di casa. a quel punto una donna, o una ragazza, o una madre anziana, andava ad aprire e non c'era bisogno che nessuno dicesse niente: la figura femminile cominciava a piangere non appena intravedeva le divise al di là della soglia, si contorceva dal dolore, trasformando la sua faccia in una maschera di lacrime, e qualche volta si accasciava pure a terra. nella realtà però manca questa comunicazione. nessuno bussa alla sua porta, nessuno la trascina già dal letto, non c'è nessuno che le spazzi via da sotto il naso quel sorriso inconscio che lei neppure sapeva di avere - e per fortuna, almeno di quello non si sarebbe dovuta pentire poi.
lo viene a sapere verso mezzogiorno, dopo aver fatto colazione, essersi vestita, truccata, sistemata, aver acceso il cellulare, uscita di casa tranquilla, preso la macchina, andata a lavoro, sbrigato alcune pratiche importanti, ignorato il telefono che squillava perché troppo impegnata. aveva deciso di impiegare la pausa pranzo per fare la spesa. al supermercato a quell'ora si trovano solo persone come lei, quelle che si ritagliano il tempo per comprarsi da mangiare, o da vivere, la carta igienica che è finita, il dentifricio, acqua, caffè perché lui quando la passava a trovare aveva sempre bisogno della sua dose quotidiana, un po' di frutta, della verdura, assorbenti se era quel periodo del mese. le era solo sembrato strano che durante tutta la mattina lui non si fosse fatto mai vivo. di solito le mandava un messaggio per augurarle il buon giorno. trovava tutte le volte un pretesto per scriverle qualcosa. lei faceva finta di niente, alcuni giorni neppure gli rispondeva se aveva troppo da fare o andava di fretta. non lo avrebbe mai ammesso, ma quel suo messaggio giornaliero le scaldava il cuore, la scioglieva: cubetti di cioccolata fatti fondere al fuoco di una candela.
si trovava al reparto carni. in mano una confezione preparata, incellofanata, di petti di pollo. freddi. una sua amica che era anche amica di lui le venne incontro. non aveva il carrello, né una borsa dentro la quale mettere ciò che doveva comprare. non sembrava essere dentro al supermercato per acquistare qualcosa, pareva piuttosto stesse cercando qualcosa, o qualcuno. lei?
da lontano non poté notare subito gli occhi rossi, il volto sconvolto, stravolto, rivoltato sotto le occhiaie, fatto nero, bagnato e irritato dal continuo strofinarsi di fazzoletti di carta usa e getta. notò solo l'aspetto non curato: i pantaloni di una tuta, una felpa slargata, macchiata, i capelli sciolti ma non pettinati. quando si avvicinò vide l'ombra sul suo viso e si accorse pure del muco che le usciva dal naso. lei non ci fece caso, pensò fosse malata, avesse passato una notte d'inferno. febbre e raffreddore. era il momento dell'influenza. non si capisce come mai in certe circostanze si pensa sempre e solo alle lacrime, a scendere copiose, rigando le guancie, e mai invece agli umore che scendono altrettanto copiosi a sporcare le labbra, a far tirare in su, a spezzare la voce in singhiozzi che si rompono in gola.
l'amica si vestì da militare, lei però non capì subito. non cadde neppure a terra, non si stravolse la faccia in un pianto sfuggente. le sembrò di venire colpita da tanti colpi ovattati, ricoperti da gommapiuma. prima alla pancia, al ventre, poi alle gambe, alle braccia, ma mai al viso. forse era per quello che non riusciva a piangere. le parve tutto a un tratto che il suo corpo fosse diventato troppo grande, sovradimensionato per le sue reali dimensioni, la sua grandezza interiore, e che lei ci stesse cadendo dentro, come precipitando in un burrone, buio e scuro. si sentiva come l'ultima matrioska, quella più piccola, messa dentro da sola all'interno di quella più grande. aveva un sacco di spazio vuoto tutto attorno a lei.
la sua reazione però fu decisa, netta. lei non lo conosceva. non voleva averlo conosciuto. in modo retroattivo. cancellò qualsiasi cosa, pure i sentimenti.

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