lunedì 24 maggio 2010

Ragioni per Vivere

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Il mio cuore – credevo si fermasse. Così ho preso la macchina e sono andata a cercare Dio. Ho superato due chiese con qualche auto parcheggiata davanti. Mi sono fermata alla terza perché non c’era nessuno.
Era pomeriggio presto, a metà settimana. Ho scelto una panca nella fila centrale. Episcopale o metodista, non aveva importanza. Era silenziosa come una chiesa.
Ho pensato a quel battito mancato, e ai successivi che si precipitavano a colmare il vuoto. Sono rimasta seduta – nel sublime abbraccio del silenzio e dei vetri istoriati – e ho ascoltato.

A casa posso fermarmi davanti alla portafinestra scorrevole e da lì, immersa nella luce, guardare il terrazzo. Sul terrazzo ci sono margherite e piante grasse dentro ciotole di terracotta. Una ciotola è vuota. È larga e poco profonda, ed è piena d’acqua come una vaschetta per gli uccelli.
La mia gatta sonnecchia nella fioriera sul davanzale. Ha il mento grigio incipriato dalla polvere iridescente che ricopre le ali delle farfalle. Se busso sul vetro non alza la tesa.
Non è il rumore della pappa.
Quando era ragazzina, sgattaiolavo fuori di notte. Rasentavo le siepi e mi fondevo con l’ombra degli alberi. Camminavo fino ad un cantiere vicino al lago. Prendevo una vasca per il cemento, la spingevo fino a riva e mi sedevo, come dentro una scodella. Mi davo la spinta con un remo rubato, e poi galleggiavo per ore, senza udire alcun suono.
La vaschetta per gli uccelli ha la forma di quella vasca.

Mi guardo le unghie nella luce cruda del bagno. La paura apparirà come un rilievo alla base. Ci vorranno un paio di settimane per riuscire a vederla.
Chiudo a chiave la porta e riempio al vasca.
In genere non è un suono percepibile. Il battito del cuore è una sensazione. Lo si avverte anche a riposo. A volte, di notte, lo senti pulsare nel cuscino. Ma so che esiste un luogo dove si può sentirlo ancora meglio.
Ecco come si fa. Si entra in una vasca piena d’acqua, adagio senza fretta. Ci si sdraia e si aspetta che la superficie sia perfettamente liscia. Poi si respira a fondo, si immerge la testa sott’acqua e si ascolta la giocosità del cuore.

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Holly e questo suo ex stanno lì seduti senza far niente, deprimendosi a vicenda. Conoscono i punti deboli e i difetti reciproci, e riescono a demoralizzarsi a vicenda in due decimi di secondo.
Holly dice che quegli incontri sono come i tramonti sulla spiaggia: una volta sparito il sole, la sabbia si raffredda velocemente. Allora sono come tanti altri momenti, che erano belli dieci minuti fa e adesso non contano più.

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Continuiamo a desiderare che le persone siano diverse.

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Io avevo il mio letto. Ci dormiva da sola, tranne le volte in cui avevamo bisogno: non di sesso, ma il sesso era il mezzo per soddisfare il bisogno.

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“Raccontami qualcosa che non mi dispiacerà dimenticare” mi disse. “Roba inutile, sennò lascia perdere.”
Cominciai. Le raccontai che gli insetti volano sotto la pioggia schivando ongi goccia, senza mai bagnarsi. Le raccontai che in America nessuno aveva mai posseduto un registratore a nastro prima di Bing Crosby. Le raccontai che la luna è a forma di banana: quando la vedi piena, è perché la stai guardando di fronte.

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“E poi?” chiese lei. “Hai qualcos’altro da raccontare?”
Oh, si.
Per lei avrei avuto sempre qualcos’altro da raccontare.
“Lo sai che la prima scimpanzé a cui hanno insegnato a parlare ha detto subito una bugia?”

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Dopo un terremoto, il telegiornale delle sei mostra un gruppo di bambini di prima elementare che, obbedendo alla maestra, gridano contro il cortile della scuola squarciato dalle scosse.
“Terra cattiva!” strillano, perché la rabbia è più forte della paura.

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Il mattino in cui la portarono al cimitero, quello dove è sepolto Al Jolson, mi iscrissi a un corso sulla “Paura di volare”.
“Qual è la tua più grande paura?” chiese l’istruttore, e io risposi: “Finire il corso e avere ancora paura.”

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Io pensavo che il presente fosse la cosa sicura. Nel futuro si può solo morire, pensavo; nel presente siamo sempre vivi.

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Quando l’acqua della piscina venne filtrata e riclorata, Grey salì sul trampolino con una tanica di benzina. Indossava una felpa col cappuccio e pantaloni abbinati con un cordino in vita. Si tuffò in acqua vestito, poi uscì dalla scaletta laterale. Era sera, e io avevo la macchina fotografica pronta.
Si spruzzò la benzina sui vestiti bagnati come se stesse innaffiando le piante. Disse che la stoffa bagnata avrebbe tenuto la benzina lontana dalla pelle.
Mi disse di immaginare il momento in cui avrebbe toccato l’acqua avvolto dalle fiamme, nell’imminente Notte della Piscina: una vera cannonata!
Poi tirò fuori l’accendino e si diede fuoco.

Fotografai tutto: la torcia umana, le spirali di fiamme che descrisse nell’aria, il sibilo della vita ritrovata quando l’acqua lo accolse.
Durò solo pochi secondi. Me era sembrato un rischio eccessivo, e glielo dissi.
Lui rispose: “Ma lì ho fatti vivere, quei secondi.”

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So che le case bruciano, e che bisognerebbe sapere cosa salvare prima che succeda. Non perché, nella foga del momento, tutto sembra ugualmente prezioso. Ma perché niente sembra valere lo sforzo, neppure la tua vita.

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La polizia e quelli del pronto intervento non cavano un ragno dal buco. La voce implorante del consorte non ottiene l’effetto sperato. La donna resta sul cornicione, ma minaccia, non ancora per molto.
Immagino che tocchi a me convincerla a scendere. Vedo la scena, che si svolge così.
Le parlo di un uomo di Bogotà. Era una persona ricca, un industriale che era stato rapito a scopo di estorsione. Non era un telefilm: la moglie non poteva telefonare alla banca e procurarsi un milione di dollari in ventiquattr’ore. Ci sarebbero voluti mesi. L’uomo era malato di cuore, e i rapitori dovevano tenerlo in vita.
Stai a sentire, dico alla donna sul cornicione. I sequestratori lo fecero smettere di fumare. Gli cambiarono la dieta e lo costrinsero a fare ginnastica tutti i giorni. Lo tennero così per circa tre mesi.
Una volta pagato il riscatto, l’uomo venne rilasciato e fu visitato da un medico: questi lo trovò in ottima salute. Racconto alla donna quello che disse il medico: il rapimento era la cosa migliore che potesse capitare a quell’uomo.

Forse non è una storia che convince la gente a scendere dai cornicioni. Ma la racconto pensando che la donna sul cornicione si farà una domanda, la stessa domanda che si fece l’uomo di Bogotà. Come facciamo a sapere che quello che ci succede non sia un bene?

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Credi di essere al sicuro, pensò il padre, ma è come credere di essere invisibile perché hai chiuso gli occhi.

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Ed ecco la cosa più eccitante della mia giovane vita: mi bacia.
E capisco che tutto questo tempo passato a non toccarci è stato come andare in spiaggia a bordo di una macchina con i finestrini chiusi, così poi l’acqua sembrerà molto più fredda.

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Voglio che tu sappia quello che a me sembra chiaro: che, se è vero che tutta la tua vita ti passa veloce davanti agli occhi quando stai per morire, è altrettanto vero che la tua vita comincia a correre quando sei pronta a sentirti veramente viva.

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Perché se siete come me, sapete che alcuni di noi non sono il mondo, alcuni di non sono i bambini, alcuni di non creeranno un giorno migliore (riferimento al testo della canzone We are the world, incisa per beneficenza nel 1985 dal supergruppo USA for Africa). Alcuni di noi soffrono in silenzio un male rumoroso. E questo è quanto ho da dire sulla paura.

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Ogni volta che vedi una bella donna, ricorda che qualcuno è stanco di lei, dicono gli uomini. E io so dove vanno, queste donne, con la loro stanca bellezza che qualcuno non desidera, queste donne che devono vivere come i pini bianchi dell’alta Sierra, lì da prima di Cristo, nutrititi chissà come dal vento di montagna.
Si dedicano agli animali, giorno dopo giorno, accarezzandoli dentro una gabbia e dicendo: “Come sta il cucciolo della mamma? Si sente solo il cucciolo della mamma?”
Le donne se ne vanno alla fine della giornata, fermandosi a domandare a un guardiano: “Andranno a stare in un bel posto?” E tornano dopo un giorno o due, chinandosi ad osservare un gatto con un occhio solo e chiedendo, come se intendessero adottarlo: “Come faccio a presentare un nuovo gatto al mio cane?”
Ma le adozioni sono rare: la cosa importante è che, quando si lasciano alle spalle le tenere creature che non le lascerebbero mai, le donne abbiano qualcuno da lasciare, sempre che abbiano donato loro il cuore.

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Non basta, dice, che una pillola la aiuti a superare la notte: in qualche modo deve anche superare il giorno.

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Vedo la mia faccia riflessa nel finestrino e guardo in faccia la triste verità: sono più bella quando nessuno mi osserva.

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Ho scritto lettere che sono un fiasco, ma ne ho scritte poche, credo, che sono una bugia.

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Come posso smettere, se estrarre suoni dal mio corpo e mostrarteli mi fa stare così bene? Questi suoni – questa lettera – sono il mio rossetto, la mia lingerie, i miei tacchi alti.

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Mi sono sforzata di vedere cose che non volevo vedere. La peggiore che abbia mai visto era un corpo senza testa. Allora ho capito che non mi dispiace vedere tutto, finché mi è dato di vedere tutto.

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Era spossante avere sempre due lavori: il tuo, più quello di essere in grado di svolgerlo.

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Normalmente le cose che gli altri trovano affascinanti nei nostri genitori – le bizzarrie, il provincialismo, le strane idee su tutto – sono proprio quelle che ci fanno venir voglia di metterli davanti al plotone d’esecuzione.

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Ciarla mi ha bisbigliato all’orecchio che se Jean-Paul Belmondo non fosse mai nato, Warren non avrebbe avuto una personalità.

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L’orologio che perdetti il giorno del nostri incontro era un orologio da pochi soldi, con dodici puntini di radio verde al posto dei numeri ma niente radio sulle lancette. Il fatto di saperlo non mi impediva di guardarmi il braccio al buio, dove riuscivo a scorgere l’orologio ma non l’ora.

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Proverei da diventare la donna che desideri senza neppure accorgermi che ci sto provando. Sta di fatto che sono a malapena la donna che sono.

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Ed è stata la prima volta che ho creduto a chi sostiene che si possa aiutare di più una persona ponendole la giusta domanda che fornendole la risposta.

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C’è una teoria della guarigione che si basa sul comportamento degli animali allo stato selvatico. Osservando gli animali sfuggiti per un pelo a un predatore, si è visto che si sdraiano e cominciano a tremare, e così facendo in qualche modo si liberano del trauma. Noi esseri umani, invece, lo assorbiamo, e il trauma non smaltito si insedia dentro di noi, dove produce una quantità di effetti e sintomi nocivi.

Amy Hempel

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