mercoledì 5 maggio 2010

Una pazza stagione

così tanto sangue che scende e scende, insinuandosi nel caldo alla ricerca di ancor più caldo; perché è sangue ed il sangue è questo che fa: prova a scaldare anche il più freddo inverno, scorrendo tra le vene e intrecciandosi nel cuore, tra il cuore, in una ragnatela pulsante ad intervalli regolari, di ossigeno e anidride carbonica; evita a tutti di farci sentire freddo, di far ghiacciare le braccia, di tramortirle in rigido rigore.
è questo che vuoi sapere, cosa sia tutto questo sangue che cade dall'altro, da sopra di noi? puntano a questo tutte le tue appuntite domande stizzite? si, sei una ferita aperta, con lembi che si divaricano ad una velocità ancor più rapida delle tue gambe. non riesco a fermarlo, così rosso da farmi perdere ogni orientamento, da farmi dirottare da ogni strada, finire giù da scarpate alte metri e metri, per finire di nuovo ancora e ancora in eterno in quella tempesta di centinaia di venti impetuosi che sono le tue parole; e lo squarcio che trovo qui lungo il mio braccio steso: i lembi seghettati di ciò che eri sono ora le tue labbra, il morso che mi hai lasciato prima di andar via e fermare in modo magico il tempo, arrestandolo in quell'unico preciso istante, durante il quale noi due eravamo così vicini da sfiorarci la bocca, con il respiro trattenuto di palpiti spassionati. chi ha mai detto che tutto questo si sarebbe pulito da solo? che ogni cosa sarebbe passata, inosservata prima e senza peso importanza poi? tutte queste ferite riaffiorano sul mio corpo con delle lacrime che sanno di ferro, rosse quasi il cielo squartato di fuoco. ho ancora paura del freddo, così quasi quanto dei ricordi. vorrei sparare via entrambi lontano, farli schizzare fuori dalla pelle, dagli organi, da quegli intertizi di vuoto che dentro non possono esserci.
far si che la nostra sia una fontana zampillante di improbabili vene, arterie, sistemi empatici che si fermano all'unisono. la mia mano forse trema ma riuscirebbe ugualmente ad afferrare tutti i tuoi circuiti intrecciati ai miei e a portarli giù, giù in una cascata di risacca schiumosa.
galleggiando a fior d'acqua, una volta finita la discesa ripida di urla, adrenalina, impulsività, potremmo vedere il tempo passare davanti ai nostri occhi sotto forma di nuvole e stelle, e di nuovo cielo sereno tiepido o burrascoso. rivivere quella lunga infinita estate durante la quale ci siamo persi così tante volte nella pioggia da bagnarci fino alle ossa, da ammorbidirci i midolli e renderli zuppi di pensieri e speranze.
i sogni, sono i sogni che si incrinano come uno specchio rotto colpito in pieno da un sasso appuntito, o da parole dure che non possono più esser tirate indietro una volta dette, perché le parole non hanno un filo invisibile che permettono di farle arretrare e ritornare in bocca, giù fino allo stomaco dove sono nate. e solo io ricordo quell'estate piovosa, trascorsa lungo sentieri non battuti, con ai bordi alta erba dove ci nascondevamo dagli occhi più indiscreti? c'è qualcuno, qualcun altro, chiunque altro, che si ricordi di quell'estate di fate e gnomi, folletti e respiri magici che si coloravano di brillante polvere dorata. io ricordo e porto appresso tutti i sintomi di questo lungo, a tratti estenuante, ricordare: ogni giorno a cercare di salvare ogni tua immagine, ogni tua singola impercettibile espressione, dai tuoi occhi alle tue orecchie; e i sorrisi, larghi intensi e sentiti.
quando ci svegliavamo, la mattina presto con ancora l'aria ferma, immobile nel primo crepuscolo turchese. i letti stropicciati nelle lenzuola arrangiate la sera prima e stese via durante la notte. quando ci ritrovavamo sdraiati vicini, entrambi impauriti, sul grande tappeto in salotto: ci svegliavamo ed eravamo ancora giovani, pronti a cacciare qualsiasi preda, pronti a cacciarci in uno qualsiasi dei mille casini che ci si presentavano di fronte, uno meglio dell'altro. e mentre le nuvole da blu sfumavano in un arrabbiato grigio ricco di pioggia, ci rendevamo conto, in modo sempre più solido, reale, che quell'errore non sarebbe stata un semplice fase. perché le linee che uscivano dai tuoi occhi, durante quell'estate, puntavano in modo costante verso il tempo, e la luce filtrante da sotto la porta del bagno a pregare, con le mattonelle dure ficcate bene appoggiate sulla nuca non poteva mentire. ci domandavamo se anche la mattina dopo ci saremmo potuti svegliare di nuovo all'alba, con i rumori silenziosi della città lontana, attutiti dalla lontananza e dal fatto che noi, più del paesaggio e del luogo che ci abbracciava, ci stringeva, noi eravamo miglia e miglia lontani. ma quale sollievo era ogni volta, capire aprendo gli occhi che non era il tempo a fuggire, ma eravamo noi che fuggivamo dal tempo, scappando più veloce dei nostri pensieri, e di quelli che tu odiavi definire come sentimenti; ci svegliavamo ancora giovani.
sarebbero dovute passare altre e altre giornate martellanti, con spigoli duri affettati tra ciò che si è lasciato e ciò che si è disposti a stendere sotto il proprio corpo, o più semplicemente quanto si è disposti a mentire a se stessi, prima di potersi sedere uno di fronte all'altra e lasciarsi stritolare da urlanti isterie rotte come bicchieri piatti, lanciati verso il muro per sfogare rabbia, sete, pulsazioni irregolari; per aprire la diga che tratteneva tutte quante le nostre vene ingigantite alla base del collo, sulla fronte proprio a dividerla in due parti perfette.
avremmo dovuto sdraiarci sotto complessi macchinari medici, raggi x e tac ipertecnologiche, piuttosto che sopra quel finto tappeto persiano del soggiorno, per poter capire bene quali sarebbero state poi le bugie che saremmo stati capaci di dirci, e quanto sangue, di chi, sarebbe stato necessario per perdonarci sul serio, sciacquando via tutto il dolore auto indotto. alla fine i risultati sarebbero stati così chiari che avrei potuto capire anche da solo che quel sangue sarebbe stato così mio da essere alla fine il tuo, che ora pulsa pulsa verso l'unica direzione possibile: il basso. giù, giù; sempre più giù, in un gorgo che faccio fatica a credere, reale, vero: quelli sono i tuoi occhi, spalancati con la pupilla ancora rivolta verso di me. i tuoi occhi, fermi. le tue braccia, aperte. il tuo abbraccio, dinoccolato. il tuo sangue: sangue su sangue che scende, giù.

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