mercoledì 26 maggio 2010

Un Piccolo Salto nel Futuro

lascia perdere la luna, lascia perdere il mare; lascia perdere la spiaggia, il tramonto, e la sera. abbiamo bevuto mangiato e parlato, questo conta: solo e soltanto. non importa della nave attraccata al fiume, quella nave sulla quale per salirci ci siamo puliti le scarpe senza togliercele, ed il cameriere ci ha invitati a seguirlo.
buonasera, buonasera. rispondiamo quasi in silenzio, senza esagerare. siamo pesci fuor d'acqua, siamo stranieri in terra straniera: abbiamo paura di sbagliare qualcosa, di fare un passo falso o di essere scoperti. non apparteniamo a questo mondo; ma mentre ci sediamo, avvicinandoci con la testa, ci diciamo: chi in realtà in fondo ci appartiene davvero, a questo mondo qua di eleganza sfrenata? forse il grassone che ride sputando mollichine di pane inzuppate di saliva, mezze masticate? oppure la bionda che ride svampita senza neppure sapere perché?
tranquillo. rilassati. siamo esploratori vestiti bene, ecco cosa siamo. non abbiamo la frusta, il cappello, il machete con il quale farci strada tra la giungla selvaggia, ma stiamo ugualmente cercando o studiando delle antiche civiltà indigene. mettila così: siamo scienziati che osservano osservano e annotano nei propri taccuini ogni singolo particolare, sia quest'ultimo stupido cretino o di interesse profondissimo. guarda, sbircia, come quando da bambini i nostri genitori ci mettevano a letto durante le loro feste, se feste si potevano chiamare i loro raduni notturni per parlare di cose da grandi, a cui noi non potevamo partecipare; così ci lasciavamo rimboccare le coperte, ricordi?, la mamma ci dava il bacio della buona notte sulla fronte e poi usciva dalla camera spegnendo la luce, per tornare in salotto a parlare con altre persone, magari la zia lo zio, o gli amici di amici o di entrambi: mamma papà e zio e zia; ma noi non dormivamo mica. ci alzavamo facendo attenzione a non fare rumore e con le orecchie tese appena fuori dalla porta accostata semi aperta della nostra stanza cercavamo di capire cosa diavolo si stessero dicendo di così segreto i nostri cari genitori. ricordi? facciamo finta di fare esattamente la stessa cosa con tutte le persone qui, quelle che a vederle, o anche a non vederle, pensiamo siano più a loro agio di noi. se vuoi possiamo chiudere gli occhi, stringerli forte forte ad annodare le ciglia, e far finta di non essere qui, di essere altrove, di trovarci in qualche luogo folle e straordinario dove non abbiamo tutta questa paura di sbagliare, di sporcare, di fare figure provinciali in una grande illuminata a festa metropoli di migliaia di abitanti.
così chiudiamo gli occhi e ci immergiamo nell'oscurità delle nostre palpebre abbassate, dove possiamo anche muoverci svogliati senza grazia od eleganza, far cadere tutto, distruggere preziosi soprammobili di cristallo: tanto che ci frega? ricostruiremo tutto.
ridiamo, e ridiamo così tanto da perdere quasi il fiato, camminiamo mano nella mano in questo luogo che è un non luogo, senza armadi, senza letti, senza alcun tipo di arredamento. neppure il paesaggio, dici te, esiste qua dentro. guarda lo sfondo: è nero. non c'è neppure la linea dell'orizzonte. potremmo camminare così mano nella mano in eterno senza mai arrivare alla fine di questo posto.
un po' come il mondo, dico io. potremmo viaggiare in lungo e in largo, visitare ogni singolo paese sviscerando le strade più piccole e piccolissime di tutte quante le città, frazioni, comuni e borghi; e continuare a camminare fino a quando le nostre suole non siano così consumate da camminare scalzi, ma andare avanti fino all'inverosimile, ogni giorno a cercare un percoso nuovo, sconosciuto; fino alla fine del mondo. e poi ancora oltre: prendere un missile e spararsi insieme nello spazio; abitare nelle stazioni orbitanti, nei satelliti per le telecomunicazioni; usare l'Hubble per cercare nuove destinazione e perderci tra le stelle.
sorridi. mi stringi forte. va bene anche il nero, dici. a riempirlo poi ci pensiamo noi.

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