giovedì 16 dicembre 2010

La musica che canti

poi successe, un po' come succede sempre in certi casi, ovvero quando hai delle illuminazioni improvvise e ti rendi conto di una determinata cosa sulla quale pensavi di avere le idee perfettamente chiare e che invece dopo quell'attimo di chiarimento ti pare tutt'altra cosa, quasi un triangolo ti apparisse dopo come un quadrato. dicevo: era sdraiato a letto ad ascoltare la musica, e visto che abitava in un condominio non si poteva permettere di tenere lo stereo acceso con il volume alto a uscire dalla casse, come invece poteva fare quando era adolescente e ancora stava con i suoi genitori, in una casa propria persa tra la periferia della città; allora si che poteva fare uscire le chitarre e le voci, le batterie, i bassi, così potenti da fare vibrare i vetri alle finestre, all'epoca non erano ancora di quelli fatti apposta per non far disperdere la temperatura, non erano fissati molto bene alla struttura in legno, tant'è quando passava una macchina fuori lo si poteva capire molto prima dal rumore delle finestre che non da quello del motore. ma questa è un'altra storia.
se ne stava, dicevo, sdraiato a letto, con gli auricolari ben ficcati dentro le orecchie, e come spesso accadeva quando si metteva in quel modo, al buio in una specie di stanza di privazione sensoriale se non per il suono, chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare dalla musica, lasciando che questa lo rilassasse, lo accudisse, lo cullasse, tanto che a volte riusciva pure a immaginarsi la musica prendere forma umana - non capiva se maschile o femminile - sedersi sul bordo del letto sul quale era steso e accarezzargli la testa, quasi a pettinargli i capelli, arruffati o stropicciati, in un gesto che secondo lui, cercando di capirne le implicazioni psicologiche, voleva aiutarlo a districare i suoi pensieri, a rendere meno tortuose le idee che molto spesso si accavallavano una sopra le altre finendo per diventare una massa informe di gomitoli di lana annodati con i quali i gatti immaginari dei suoi mal di testa si divertivano a giocare.
visto che era da solo in casa non si sentiva in obbligo di mantenere un certo contegno. i muri che separavano il suo appartamento, e nella fattispecie la sua camera, dall'appartamento e dalla camera del suo vicino, si era auto convinto fossero troppo sottili da non permettere alla musica dello stereo di oltrepassarli andando a disturbare la privacy del suddetto vicino, ma allo stesso tempo abbastanza spessi da non lasciare alla sua voce, per quanto urlata o perlomeno non sussurrata, di fare la stessa cosa andando a disturbare sempre la stessa privacy dello stesso vicino di cui sopra. per questo, in modo naturale, senza pensarci troppo, un gesto spontaneo, dopo alcune canzoni passate in religioso silenzio, a occhi chiusi, immerso nel buio sia della camera che delle sue palpebre abbassate, iniziò forse senza neppure rendersene conto a cantare pure lui, insieme al cantante vero e proprio, le canzoni che stava ascoltando.
non accadde subito, perché all'inizio i riff di chitarra e la sezione ritmica, unito al volume alzato al massimo del lettore mp3, non gli permettevano di sentire altro se non i suoni che uscivano dagli auricolari. il tutto avvenne quando in un passaggio lento di una canzone percepì, come una cosa lontana, la sua stessa voce. fino a quel momento era riuscito a immergersi talmente tanto bene nella musica da non accorgersi di stare cantando. o meglio: sapeva di cantare, ma credeva che la sua voce non fosse la sua vera voce quanto invece la voce del cantante, che in fin dei conti alle sue orecchie superava e nascondeva la sua, di voce, rendendola per così dire invisibile. perciò, quando sentì di nuovo dopo tanto tempo la sua voce, quello strano gracchiare arrugginito di parole che solo per caso sembravano essere le stesse cantate dalla voce del cantante, ebbe una sensazione di vertigini, uno specie di messa a fuoco sbagliata, quasi il suono fosse diventato una fotografia dentro la quale per qualche motivo gli oggetti ritratti uscivano dai loro contorni, si sovrapponevano uno sopra gli altri, si confondevano, non risultavano netti e delineati come invece di solito, o almeno fino a poco prima, erano sempre stati. quando si calibra uno strumento si deve sempre tenere conto di un margine di errore, insito nell'atto della misurazione o preesistente nello strumento primario con il quale si calibra lo strumento oggetto a calibratura. questa precisione impossibile viene identificata dalla frase di più o meno, tipo, dieci millimetri, o dieci centimetri. bene, lui, quando si accorse della sua voce, si trovava in quell'intervallo di più o meno dieci centimetri, e si sentiva spaesato. ecco, giusto per rendere l'idea di come si sentisse in quel momento.
ma non fu quella la vera illuminazione che lo sconvolse. no. il fatto di avere una voce alquanto brutta, anche se non l'ascoltava mai registrata e per questo la percepiva sempre viziata dalla propria cassa di risonanza, che ne alterava per lui il risultato finale, era una realtà con la quale ormai conviveva da tempo. ne era conscio, non era necessaria nessuna folgorazione. quello che lo sconvolse, ma in positivo, che gli permise in senso figurato di trovare la soluzione a un rompicapo matematico, o di scovare la via sicura per uscire da un labirinto dentro il quale ormai vagava da mesi, fu la possibilità di sovrapporre questa banale situazione a situazioni ben più complicate che lo circondavano dallo stesso numero di mesi per i quali si era perso dentro il labirinto di cui sopra.
fino a poco prima la sua voce gli appariva perfetta, intonata come non mai, calata dentro le canzoni che stava ascoltando. solo in quel momento, quando la sentì davvero durante un momento di silenzio, se così si può definire, musicale, silenzio musicale, si accorse di quanto non fosse per niente perfetta, anzi, stonata come sempre, indecisa nel pronunciare le parole, mangiandosi pure lettere intere, quelle iniziali o le finali. capì, per la prima volta, e questa fu la vera illuminazione che lo accolse a braccia aperte, quasi con un sospiro di sollievo per quanto tempo ci avesse impiegato a realizzarla, che le situazioni, quelle reali, quelle immerse nella verità di tutti i giorni, presenti nel mondo esterno e non solo in quello suo interno, erano proprio come le canzoni che cantava. la musica ad alto volume nelle orecchie poteva abbellirgli un po' tutto quanto, appendere coccarde alle finestre, ridipingere le ciminiere delle industrie all'orizzonte, e poteva pure renderlo intonato. ma questo era solo un artificio, un effetto speciale che gli permetteva di vedere cose che in realtà non esistevano, quali per esempio alieni verdi che respirano elio e cagano uranio, per esempio, oppure edifici giganteschi di una bellezza incredibile ma che fuggono via da qualsiasi legge della fisica o dell'edilizia.
quello che sentiva lui, ovvero la sua voce perfetta che cantava intonata sopra le note delle canzoni, non era la realtà, era solo quella che lui per errore percepiva come realtà. solo lui si sentiva cantare bene, tutti gli altri, le persone che non avevano gli auricolari alle orecchie e non ascoltavano la sua stessa musica, lo sentivano gracchiare in modo odioso, tanto da far strizzare gli occhi dal disprezzo, nel tentativo magari di chiudere per simpatia pure le orecchie senza doverci appoggiare sopra le mani.
ecco l’illuminazione vera e propria, quella capace di fargli aprire gli occhi e guardare le situazione dentro le quali si era calato sotto tutto un altro punto di vista.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Avete ascoltato il nuovo doppio di Mario Biondi, "Yes you"? È il live che riporta le emozioni del suo magnifico “Spaziotempo tour 2010”, durante il quale era sul palco con due orchestre, una jazz acustica e una funky-soul ed elettrica. Nel disco canzoni di Biondi ma anche riletture di standard classici (Weather Report, Art Blakey, Gino Vannelli , Charlie Parker, Earth Wind & Fire, Nat King Cole). Imperdibile!

Anonimo ha detto...

Il semble que vous soyez un expert dans ce domaine, vos remarques sont tres interessantes, merci.

- Daniel