La strada che dall’osservatorio porta in centro è lunga e non certo tra le più belle da fare di sera. L’asfalto poco curato si snoda attraverso simpatici boschetti che di notte assumono un aspetto piuttosto spettrale. Da piccoli i nostri genitori, per fare in modo che non ci addentrassimo per quei loschi luoghi, ci dicevano che tra quegl’alberi c’era la possibilità, non tanto remota, di trovarsi faccia a faccia con un cinghiale inferocito.
Mirko ascoltava tutte le storie terribili che ci raccontavano per spaventarci e poi ci rideva su. Diceva che non erano altro che un sacco di balle, tipo quella buffa storia del bau-bau, e poi mi trascinava in escursioni interminabili proprio là dove ci era stato detto di non avvicinarci neppure.
Era chiaro come il sole che lui non credeva ad una virgola di quello che i nostri genitori ci dicevano, e neppure io ci credevo, con la sola differenza che io avevo ugualmente una paura fottuta. Mi cagavo sempre addosso ogni volta che ci perdevamo in quei boschetti.
Adesso, con qualche anno in più sulle spalle, le cose sono decisamente cambiate. So ormai per esperienza personale che il bau-bau non esiste, altrimenti con la mia solita fortuna sarebbe venuto a trovarmi a cadenza settimanale, e so anche che, se mai mi trovassi davanti un vero cinghiale, quello che avrebbe più paura tra i due forse sarebbe proprio lui.
Nonostante ciò non è che mi senta poi così tranquillo come vorrei far sembrare. Non ho problemi ad ammettere che a venticinque anni compiuti c’è una lunga serie di cose che ancora mi fanno paura. Passeggiare nel buio in una strada deserta costeggiata da un bosco e immerso tra rumori strani rientra proprio in quella lista.
Mi chiudo nel giacchetto di jeans e allungo il passo.
Se riesco a tenere il mio passo olimpionico penso di arrivare in paese, se tutto va bene, in un quarto d’ora. Poi dal centro a casa mia ci vorranno altri dieci minuti a piedi. Il tutto, tra una cosa e un’altra, salutare gli amici che sicuramente incontrerò per strada e scambiarci quattro chiacchiere per non essere scortesi, per circa mezz'ora di viaggio.
Sono le undici e mezzo appena passate e mi sembra piuttosto ottimistico pensare di arrivare davanti al portone di casa per un’ora che si avvicini a mezzanotte. Oltre questo devo sperare che quella testaccia di mio fratello minore, una volta tanto, disobbedisca ai nostri genitori e rientri un bel poco dopo il coprifuoco; oppure, più semplicemente, si ricordi che ci sono ancora io fuori e tolga la chiave della porta dalla serratura.
Mio fratello si chiama Stefano e a differenza di me sta a sentire per filo e per segno cosa gli dicono mamma e papà. C’è una differenza caratteriale tra me e lui che fino a qualche anno fa pensavo sul serio che uno dei due fosse stato adottato.
Se con me il rientro serale per i sedici anni era fissato per mezzanotte, io non badavo tanto all’orologio. Bastava che entrando in casa mi ricordassi di togliermi le scarpe e di fere il più piano possibile per rientrare anche verso le una. Con lui invece è tutta un’altra storia. Se il babbo dice mezzanotte lui a mezzanotte è già sotto le coperte.
Più di una volta ho sperato che lui si ribellasse. Più di una volta ho desiderato che togliesse quella cazzo di chiave dalla serratura. Più di una volta sono rimasto chiuso fuori e costretto ad andare a dormire da Mirko.
Una goccia d’acqua mi cade sul naso. È la prima che sento da quando ho lasciato gli altri due a tubare su all’osservatorio. La prima, isolata goccia d’acqua.
“Non vorrà mica mettersi a piovere?” dico tra me e me.
Mi fermo e alzo la testa cercando di guardare il cielo, ma tutto è così scuro che quasi non riesco a distinguere le nuvole dai rami che invadano la strada. Le stelle non si vedano più e anche la luna sembra nascondersi, per metà, dietro un’ombra nera che non promette affatto bene.
Riprendo a camminare ancora più svelto, soffocando le bestemmie che mi salgono in gola con sprazzi di preghiere al dio della pioggia, qualunque esso sia.
Se davvero ha intenzione di mettersi a piovere comincio a vedermi male sul serio.
L’acqua inizia a venire giù sempre più forte. Per un momento ho la tentazione di infilarmi nel bosco e cercare riparo sotto un albero. L’idea fissa del cinghiale e la possibilità di essere preso in pieno da un fulmine mi fanno cambiare opinione: è meglio continuare a camminare, il più veloce possibile.
Tra l’altro il centro dovrebbe ormai essere vicino. Ancora qualche centinaio di metri e si dovrebbe cominciare a vedere qualche segno di vita civilizzata. I primi segnali stradali, le prime luci dei lampioni. Le prime case.
È soltanto questione di qualche centinaio di metri, mi dico. O no?
“Conta duecento passi e siamo arrivati, dai.” Lo dico per rassicurarmi, ma in realtà non ci credo poi molto. Convincersi che manca poco però può aiutare. Mi aiutava a resistere a tutti quegli stupidi test fisici che facevamo a scuola durante l’ora di educazione fisica, perché non dovrebbe aiutarmi ora?
La pioggia è insistente e sempre più fitta. Mi sembra di essermi messo sotto una doccia enorme che non conosce confini.
Ho già tutti i vestiti zuppi e ora comincio a sentire l’acqua che mi tocca la pelle, quella del petto. Di solito non dovrebbe succedere così, no? Di solito avrei dovuto trovare un riparo ancor prima che la pioggia cominciasse a rigarmi la faccia, e invece… riesco a malapena a vedere quello che mi sta a due metri, e di un riparo neppure l’ombra.
La mia solita fortuna.
Dall’ultima curva dietro le mie spalle si vedano arrivare due luci, presumibilmente quelle dei fari di un’auto. Se tutto girasse per il verso giusto sarebbe quella di Mirko, ma so già ancor prima di intravederne la forma che non è così. Irene ha sempre paura a fare questa strada di notte: l’assenza di luci, le buche e tutto il resto non le piacciono molto. Per questo costringe Mirko a fare l’altra strada, quella più lunga ma più sicura che scende dall’altro versante della collina.
“Se ha paura a farla di notte, figuriamoci poi con questo cazzo di temporale. Come minimo avrà convinto Mirko a forzare la serratura dell’osservatorio e a passare la notte lì.”
La macchina, quella che mi sembra una Polo scura, mi passa accanto con cautela, quasi stando attenta a non buttarmi dell’altra acqua addosso. Io non cerco neppure di fermarla, non faccio un gesto, non mi butto in mezzo di strada. A volte il mio carattere mi fa schifo, ma mi vergogno troppo a fermare uno sconosciuto per farmi accompagnare a casa. Ci sarebbero troppe domande a cui rispondere:
“Cosa ci facevi qui tutto solo?”
“Come mai non ti sei portato un ombrello?”
“Guardati, sei tutto bagnato… (come se non lo sapessi)” non ne vale la pena.
Preferisco starmene a mollo ancora un po’ piuttosto che chiedere un passaggio.
Dopo avermi sorpassato la macchina si ferma, giusto qualche metro dopo di me.
Io comincio a rallentare il passo. Guardo gli stop rossi accesi e mi domando cosa diavolo voglia ora questo tizio. Ho visto troppi film dell’orrore per cadere in tranelli così sciocchi. Un ragazzo solo che in mezzo ad una tempesta accetta un passaggio da uno sconosciuto: è un copione già scritto. So già che, se entrassi in quell’auto, ad aspettarmi ci sarebbe un maniaco con un uncino al posto di una mano.
Quando però arrivo all’altezza dello sportello del passeggero la luce interna è accesa e questo mi sembra strano per un maniaco: abbordare una vittima rischiando di far scoprire la propria identità è più che un passo falso.
Poi la portiera si apre e riesco a vedere una mano che mi fa cenno di posare il mio dolce culetto sul sedile. Un’altra mano la intravedo appoggiato sullo sterzo. Tiro un sospiro di sollievo: niente uncini.
Nessun commento:
Posta un commento