venerdì 11 giugno 2010

Consapevolezza

mi guardo intorno e vedo: la sensazione, la mia, di trovarmi nel posto giusto ma nel momento sbagliato. ha un volto offuscato dalla mia fatica, non riesco a distinguerne il sesso. mi dico: è un angelo. ma non ha le ali, i contorni sono netti, e quando mi attraversa, in un soffio, quasi a strapparmelo via dai polmoni, afferrandolo con una mano stretta a pungo e sturando tutti i nodi che ho dentro, mi lascia un vuoto che non è solo del respiro ma anche di sensatezza.
mi volto per cercare di rincorrerla, di prenderla per le spalle e recuperare ciò che mi ha rubato; ma dietro di me lei non c'è. non c'è dietro, non c'è davanti, non c'è di lato, a destra a sinistra, non c'è sopra, su per il cielo aggrappata alle nuvole, la mia sensazione, non c'è. si sarà scavata una buca, una buca profonda e si sarà nascosta sotto terra, sotto di me; ma non può essere: il terreno è duro, compatto, non c'è traccia di alcuno smussamento.
ho sete, mi dico. è meglio fermarmi. una voce però si lamenta, mi dice che non è vero, che non ho sete, che sto solo mentendo e mentire a me stesso vuol dire mentire il doppio, il quadruplo, mentire ed elevare all'ennesima potenza, un milione due milioni un miliardo centomila milioni di miliardi, la stessa stupida bugia che mi racconto senza parlare. ammettilo, stronzo. abbi il coraggio.
tutto ad un tratto ho come l'impressione che il mondo corra più lentamente di me, che io lo superi a passi stanchi, sudati, trascinati uno dietro l'altro con il solo intento di non raggiungere un traguardo ma di liberarmi di un peso. il mondo, mi dico, non dovrebbe andare più piano, dovrebbe essere il contrario: dovrebbe andare più veloce. solo così io mi posso affannare a recuperarlo. solo in questo modo avrebbe un senso trovarmi lo stesso dietro, essere comunque sempre secondo, terzo, quarto, quinto, esimo. non è possibile correre più veloce di tutti, di tutti quanti ed essere allo stesso tempo ultimo. non è possibile dettare l'andatura, spostare l'asticella più in alto, aumentare la velocità fino a far spaccare il quadrante dalla lancetta, essere sicuro di aver raggiunto superato e umiliato la luce sputandole negli occhi tutto il catarro rabbioso di frustrazione repressa; correre a perdifiato fino a consumarsi non tanto le suole delle scarpe quanto piuttosto i piedi stessi, prima, e le caviglie gli stinchi le ginocchia, poi: non vincere.
non ha senso. c'è qualcosa che non torna.
rilassati. va tutto bene, mi dice la mia sensazione. mi invita a sedermi su una panchina e si fa baciare, toccare, palpare, scopare fino in fondo senza alcuna paura remore pudore per il buon costume. si lascia penetrare, mi lascio penetrare. siamo due corpi avvinghiati in permutazione continua che si stringono sempre più stretti e nudi e spenti e accesi e liberi e non costretti a posizioni forzate dalla gravità ultima e terrestre; sporchi di terra, di erba, di aghi di pino caduti dagli alberi e che ci pizzicano la pelle nelle zone più morbide e delicate possibili, i rossori delle nostre unghie che afferrano la carne nel tentativo di strapparla via e di inglobarci fino in fondo nei più primitivi e naturali termini, pure cellule contro cellule, legando una ad una ogni singola fibra, muscolo, tendine e cervello.
ci ingoiamo a vicenda, digerendoci lentamente in un bagno di succhi, gastrici linfatici umorali, fluidi, zampillii di consapevolezza - non è buono, non è giusto, non è corretto, non è sano, non è civile; siamo contenti di non essere così civili da non riuscire a goderci un tuffo nelle acque così schiumose di un'ebbrezza che non è ebbrezza ma pura e semplice frenesia - sperma opaco a disegnare le onde.
a volte, mi dice con il tono genuino della spossatezza, le situazioni vanno trattate come l'acqua: vanno bevute e poi pisciate via.

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