lunedì 21 giugno 2010

Non abitiamo più qui

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In un matrimonio esistono diversi tipi di bugie la cui malignità uccide pian piano ogni cosa: quel giorno io stavo sperimentando l’intera gamma, che andava dalla bugia bell’e buona dell’adulterio, fino all’accurata selezione d’informazioni che avviene quando tra due persone iniziano ad esserci argomenti di cui non si può più parlare. È dura dire quale delle due cose uccida prima, ma direi questa selezione degli argomenti di conversazione, perché è una resa: eviti di toccare le ferite e di conseguenza eviti di toccare le profondità del cuore.

In quei mesi di aprile e maggio, le ci voleva un vero e proprio atto di volontà per tirarsi giù dal letto. Anche l’aria che respirava in casa era contro di lei: sembrava appiccicosa e grigia e fitta, più fitta della nebbia, e lei ci passava attraverso per arrivare al bagno dove restava seduta a fissare a lungo il pavimento o la tenda della doccia dopo essersi lavata.

Una volta nell’Iowa, mentre Edith si trovava in una lavanderia a gettoni – un locale angusto frequentato da studenti universitari che stavano lì a leggere Mann e Tide senza fare troppa differenza, e donne robuste con i bigodini in testa: un posto squallido, che lei abbandonò di buon grado una volta sposato Hank quando poté avere una casa tutta sua con lavatrice e asciugatrice – conobbe una ragazza da poco sposata che veniva da una città del sud. Il marito era uno studente e lavorava di notte come receptionist in un motel. Siccome avevano trovato una buona offerta da sessanta dollari al mese, vivevano in una fattoria lontana dalla città, lontana da tutti. Dalla finestra, la sera, guardando il paesaggio piatto e privo di alberi, lei poteva vedere le luci del quartiere più vicino, che distava circa un miglio e mezzo. Avevano anche un figlio, una bambina. Quella ragazza non aveva mai vissuto in campagna, e ai contadini piaceva raccontarle storie di paura. Mentre andava a ritirare la posta in strada, questi contadini grossi e bruciati dal sole, simili ai maiali che allevavano, fermavano il loro trattore per parlare con lei. Le raccontavano storie di maiali che sbranavano gli ubriaconi che trovavano lungo la strada e di bambini rimasti intrappolati dentro i recinti. E le avevano raccontato che un anno prima, durante il lungo e terribile inverno, un uomo si era impiccato proprio nel granaio della casa dove ora lei viveva; abitava lì da solo e l’avevano sepolto in città.
Così di sera, mentre suo marito era alla reception del motel, quella donna aveva paura. Quando era pronta per andare a letto si faceva forza per scendere di sotto a spegnere tutte le luci, ma in cuor suo avrebbe voluto lasciare le luci accese e dormire in una casa illuminata a giorno. Poi saliva le scale e spegneva anche la luce in corridoio, dato che stava insegnando alla sua bambina a dormire al buio. Quindi andava a letto e, dopo aver sfogliato un libro per un po’, i suoi occhi incominciavano a chiudersi e riusciva a dormire; ma la paura era sempre lì, e se le capitava di svegliarsi nella notte – perché le scappava la pipì, perché aveva sentito un rumore dalla stanza della bambina o perché sulla strada di fronte a casa sua c’era una delle poche e solitarie macchine di passaggio – restava lì terrorizzata in quel buio, che sembrava parlarle, toccarla. In quei primi terribili istanti pensava di essere spaventata dal buio stesso: che se lo avesse fatto svanire con la luce, la paura sarebbe passata. Ma non accendeva la luce. E mentre restava immobile scoprì che anche dentro al buio ci sono angoli di salvezza. Lei non aveva paura della sua stanza. Distesa al buio passò in rassegna le altre stanze. Non aveva paura della stanza della bambina. O del bagno. E neanche del corridoio, delle scale, del soggiorno. Si trattava solo della cucina. Di quell’angolo in ombra fra il frigorifero e la credenza. A dire il vero non credeva che qualcuno se ne stesse accovacciato lì. Ma era quell’angolo che le faceva paura. A letto lo poteva vedere con più chiarezza di quanto non riuscisse a vedere la sua stanza nel buio. Alla fine si alzava dal letto e, a luci spente, scendeva di sotto in cucina e si metteva di fronte all’angolo buio, fissandolo. Lo fissava fino a quando non aveva più paura; poi saliva di sopra e andava a dormire.
Altre notte le capitava di avere paura di altri posti. A volte era la soffitta, e allora saliva le scale, respirando l’aria viziata, superava le finestre polverose, e si metteva al centro della stanza fra scatole e scatoloni; era consapevole che se fosse arrivato un topo correndo l’avrebbe messa in fuga fra le urla, ma pregava che non succedesse. La cantina era anche peggio: era fredda e umida, il soffitto era basso, e indipendentemente da dove lei si trovasse c’era sempre un angolo che non riusciva a vedere: dietro la fornace al centro del pavimento, dietro le colonne ch sostenevano il soffitto. La cosa peggiore di tutte era il granaio: alcune sere si svegliava e vi entrava: un posto terribile anche di giorno, con tutte quelle travi. Non sapeva quale fosse la trave che quell’uomo aveva usato per impiccarsi. Sapeva solo che si era arrampicato su una di essere, aveva legato la corda, si era messo il cappio attorno al collo, e si era lasciato andare. Certe notti, abbandonava il letto e usciva per andare nel granaio. Era autunno e doveva soltanto infilarsi l’accappatoio e le scarpe. Attraversava il prato, si avvicinava alla porta spalancata e non aveva paura di vedere l’uomo: entrando nel granaio, aveva solo paura di alzare gli occhi al cielo e di vedere la trave che quell’uomo aveva scelto per impiccarsi.
Tornando a casa in macchina, domenica notte, Edith ripensò a quella donna – non riusciva a ricordarne il nome, solo la storia – in preda alle sue paure infantili: perché non era il fantasma dell’impiccato a spaventarla; lei non credeva ai fantasmi. Era il buio. Quel certo tipo di buio in un certo tipo di notte. Edith aveva visto coi suoi occhi quel posto e ciò la spaventava. Ma mancava sempre qualcosa in quella storia, qualcosa a cui Edith non aveva mai pensato fino a quel momento: la donna andava a vedere i posti che nel buio le mettevano paura. Ma non vi aveva mai trovato quello che la spaventava.

Quest’amore ti svuota senza riempirti, ti sciupa, e finirai per invecchiare ridotta in frantumi.

Quando finalmente lasciano l’appartamento, la giornata è frizzante quanto basta per indossare maglioni e giacche a vento, l’aria è asciutta, il cielo di un blu profondo e sulla maggior parte degli alberi ci sono ancora foglie morenti rosse, arancioni e gialle, scaldate dal sole.

Quello che non capisce è perché Lori lo ami, ma preferisce non sforzarsi a cercare d’indovinarlo, perché ha paura di non trovare una ragione abbastanza forte a cui affidarsi.

Hank era abbastanza giovane da farsi incantare dal suo accento, così aveva finito per ascoltare il suono della sua voce più di quello che diceva.

una bionda dai capelli color miele

sembrava arrivato il momento: il momento di portare a termine le cose o di cominciare, o entrambe.

Andre Dubus

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